IL VOTO ALLE DONNE: UNO SGUARDO ALL’EUROPA è il titolo di uno dei contributi che uscirà sul n°2 del giornale cartaceo IL PAESE DELLE DONNE che uscirà per la mostra-convegno itinerante “1946 il voto alle donne” che si aprirà il 1 maggio per chiudersi il 4 giugno alla Casa Internazionale delle Donne a ROMA
La rivendicazione dei diritti politici delle donne si pose contestualmente alla definizione di cittadinanza e di rappresentanza politica, princìpi cardini dei nuovi assetti politico-costituzionali. Questo rende evidente il fatto che i moderni sistemi politici liberali furono pensati e si andarono strutturando con la netta esclusione delle donne dal nuovo ordine politico. Il passaggio dalle società di antico regime alle società moderne segnò infatti per le donne la perdita di alcuni diritti e l’acquisizione di altri, ma fu soprattutto il delinearsi della sfera pubblica, contrapposta a quella privata, e la precisa definizione dei diritti politici, a rendere evidente l’assetto esclusivamente maschile della nuova cittadinanza politica.
Volgendo lo sguardo all’Europa, la Rivoluzione francese del 1789 rimane, per numerose ragioni, il primo importante contesto storico di riferimento per le tematiche legate al riconoscimento dei diritti di voto alle donne: nei lunghi anni rivoluzionari, le donne francesi presero la parola e proferirono discorsi di contenuto profondamente politico in più momenti cruciali dello stesso processo. La separazione tra sfera privata e pubblica segnò una importante e duratura disparità: fu generalmente più facile ottenere il riconoscimento di alcuni diritti civili, mentre robustissime furono le obiezioni poste all’ingresso delle donne nella piena cittadinanza politica. La Rivoluzione francese, inoltre, contemplando sia il sistema censitario (in seguito alle costituzioni del 1791 e del 1795), sia quello universale maschile (secondo la costituzione del 1793, sebbene non applicata), offre le coordinate generali per cogliere le ragioni dell’esclusione delle donne dai due principali sistemi di rappresentanza politica moderna.
Per quanto riguarda l’ambito civilistico, va ricordato che sebbene nel corso del processo rivoluzionario furono attuate due importantissime riforme (l’introduzione del divorzio nel 1792 – che rendendo il matrimonio un contratto civile riconobbe le donne come soggetti contraenti – e l’uguaglianza nel diritto successorio per cui sorelle e fratelli avrebbero equamente diviso le eventuali proprietà della famiglia di origine), la situazione mutò significativamente nel periodo napoleonico: sarà infatti il primo codice civile, il Code Napoléon del 1804, a delineare il nuovo profilo della famiglia borghese ottocentesca.
Il testo, oltre a stabilire l’«obbedienza» che la moglie avrebbe dovuto riservare al consorte, ad escludere le donne dalla possibilità di essere testimoni negli atti civili e a collocarle in condizione di netta disuguaglianza per l’ottenimento del divorzio, con l’istituto dell’«autorizzazione maritale» affidava al marito l’intera gestione dei beni di famiglia. L’esclusione dalla gestione dei beni familiari fa sì che, nei sistemi censitari, le donne coniugate non potranno veder riconosciuto il diritto di voto.
La collocazione delle donne dinanzi al diritto di proprietà è una questione cruciale, ovviamente, nei contesti in cui si votava in base al censo. A differenza degli uomini, quindi, la proprietà non consente alle donne di accedere alla cittadinanza. Ma, si dirà, le nubili? E le vedove? Loro sì che godevano pienamente del diritto di proprietà e dunque perché era loro egualmente precluso il diritto di voto?
Per votare, come l’introduzione dei sistemi a suffragio universale maschile chiarirà ancora più esplicitamente, bisognava essere maschi: le principali culture politiche, quelle legate alla tradizione cattolica, così come quelle dell’ampia famiglia socialista ed ancora quelle di stampo più individualistico propria del radicalismo, con motivazioni diverse e di diversa intensità, a lungo restarono infatti ostili al riconoscimento del diritto di voto alle donne.
La Rivoluzione francese portò un altro importantissimo cambiamento: con l’introduzione del servizio di leva obbligatorio, tutti i nuovi cittadini – la «nazione in armi» – acquisirono il compito di difendere la patria e i suoi confini. Servizio di leva, partecipazione alla guerra e a campagne militari erano funzioni assegnate solo agli uomini, ma anche questi costituirono delle importanti vie d’accesso al diritto di voto. Ancora una volta, quindi, la declinazione solo maschile della cittadinanza emerge in tutta la sua evidenza.
Con tempi e modalità differenti gli istituti che così fortemente avevano caratterizzato il codice civile napoleonico vennero meno in rapporto a delle lotte molto serrate condotte dai diversi movimenti emancipazionisti e in nome di una modernizzazione che non stentò ad affacciarsi sul finire dell’800; l’autorizzazione maritale sarà, però, cancellata dal codice civile italiano nel 1919 e in quello francese solo nel 1938. Il pieno godimento del diritto di proprietà sembrava preludere al riconoscimento del diritto di voto, ma il fascismo in Italia e i governi che si succedettero dopo il Fronte popolare in Francia non lo contemplarono tra i propri obiettivi.
Per le suffragiste francesi, la battaglia più difficile sarà confrontarsi con le profonde e radicate ostilità che scienziati, autorità ecclesiastiche e politici espressero contro il diritto di voto alle donne. Molte esponenti del movimento instaurarono nel tempo un rapporto diretto con singoli deputati che avevano mostrato qualche apertura verso l’uguaglianza formale tra i sessi.
Nel complesso, però, così come accadrà in Italia, saranno le rivendicazioni in favore dei diritti civili quelle maggiormente sentite e su cui si impegneranno con particolare dedizione; la possibilità di godere del proprio salario senza autorizzazione del marito, il diritto di testimoniare o di accedere alle professioni erano istanze più sentite rispetto a quella che sembrava una autentica chimera: avere tra le mani la scheda elettorale.
A ribaltare il ragionamento in Francia fu principalmente una militante: Hubertine Auclert, la suffragista francese più rappresentativa dell’intero movimento. Scelse di assegnare la priorità al diritto di voto perché voleva che le donne decidessero e legiferassero; solo così avrebbero cancellato gli articoli più umilianti del Codice Napoleone. Candidature simboliche, iscrizioni alle liste elettorali, petizioni, banchetti politici, irruzioni nelle sedi politiche ufficiali furono i mezzi di lotta più frequentemente adottati.
Il paese della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, del suffragio universale maschile introdotto già nel 1848, della Repubblica laica, fece attendere alle francesi la fine del secondo conflitto mondiale per riconoscere loro il diritto alla scheda elettorale: il voto alle donne non rientrò nemmeno nel programma del Fronte Popolare che portò al potere il socialista Léon Blum nel 1936.
La Spagna, invece, pur condividendo con la Francia e con l’Italia aspetti rilevanti quali il codice civile di impronta napoleonica e la radicatissima tradizione cattolica, giunse relativamente presto al vero suffragio universale. Come Mussolini, il dittatore Primo de Rivera nel 1924 aveva riconosciuto soltanto alle donne capofamiglia una sorta di voto amministrativo, ma sarà la Seconda Repubblica e la nuova Costituzione, molto avanzata sul piano dei diritti, a riconoscere ai cittadini «dell’uno e dell’altro sesso» la piena parità.
É in parte nota la contrapposizione tra la vera protagonista della dura battaglia per il voto alle donne, Clara Campoamor, e un’altra deputata – Victoria Kent – che esprimeva i timori legati al capillare controllo che, la Chiesa e una certa cultura tradizionalista, avrebbero ancora esercitato sulle donne indotte quindi a sostenere le forze politiche conservatrici. La seconda Repubblica spagnola introdusse, oltre al diritto di voto, importanti misure in tema di tutela della maternità, ambito caro ai socialisti, nonché l’istituzione del matrimonio civile e del divorzio, la fine del reato di adulterio e l’equiparazione tra i figli legittimi e gli illegittimi.
La vittoria di Francisco Franco, la cui responsabilità non può certo essere attribuita alle neo-elettrici, cancellerà ogni diritto.
Diverse erano le coordinate di fondo in Germania, dove, soprattutto, nella seconda metà dell’800, il partito socialista di Erfurt, a differenza di altri partiti socialisti, si era dichiarato favorevole al diritto di voto delle donne; la causa suffragista aveva pertanto ricevuto presto il pieno sostegno del partito.
La presenza poi di Clara Zetkin, leader di primissimo piano del movimento socialista, diede un respiro internazionale alla causa suffragista.
La Costituzione di Weimar del 1919 – la nuova Carta della Repubblica federale – inserì l’elezione del Reichstag con il voto di tutti gli uomini e di tutte le donne.
Il riconoscimento della cittadinanza femminile e l’ampio ruolo riservato ai sindacati rivelano l’impronta socialista della celebre Costituzione.
Il paese simbolo del suffragismo rimane comunque l’Inghilterra, dove indiscutibilmente si ebbe il movimento più esteso e stratificato. La legge del 6 febbraio del 1918 stabilì il diritto di voto per circa 6 milioni di donne inglesi, ossia tutte coloro che avessero superato i 30 anni di età, dunque in condizioni diverse rispetto agli uomini, per i quali era richiesto il superamento del ventunesimo anno (tale gap verrà cancellato nel 1928).
Un peso importante lo hanno naturalmente ricoperto i diversi sistemi culturali: l’etica protestante ha tradizionalmente incoraggiato i diritti soggettivi e, soprattutto, sebbene le relazioni tra ambito civilistico e pubblicistico siano diversamente strutturati, fin dal 1882, con il Married Women’s Property Act le donne coniugate hanno potuto disporre liberamente dei loro beni e del loro salario.
Ammesse (solo le nubili in verità) al voto per i Consigli municipali fin dal 1869 e per i Consigli di contea dal 1880, le inglesi cominciarono a porre la questione della completa parità dei diritti politici fin dal 1867. All’interno del movimento, sul finire dell’800, emerse una divergenza profonda: una parte abbracciò una posizione gradualista, privilegiando azioni di pressione su politici e deputati perché si facessero interpreti della loro causa; l’altra scelse metodi di lotta diretti: manifestazioni cittadine, interruzioni di comizi, incatenamenti ai cancelli del Parlamento.
Al primo indirizzo fece capo la National Union of Women’s Suffrage Societies a lungo presieduta da Millicent Garrett Fawcett (dal 1890 al 1919); all’impostazione più radicale la Women’s Social and Political Union fondata nel 1903 da Emmeline Pankhurst e dalla figlia Christabel. Nel 1912, quando il Parlamento bocciò il Conciliation Bill, il movimento suffragista esplose: cortei, manifestazioni pubbliche, assalti alla proprietà privata; gli arresti che ne seguirono furono contestati da lunghi e significativi scioperi della fame. Il governo inglese rispose con una legge definita Cat and Mouse Act: che autorizzò l’alimentazione forzata delle scioperanti e la rimessa in libertà delle militanti presto nuovamente recluse alla ripresa delle manifestazioni. Memorabile rimase l’episodio che vide, nel 1913, Emily Wilding Davison, durante un darby, buttarsi sotto il cavallo del re in piena corsa, perdendo ovviamente la vita.
I suoi funerali si trasformarono nell’ultima imponente manifestazione suffragista del periodo precedente alla guerra.
La fine del primo conflitto mondiale costituisce un momento importante per il riconoscimento del voto alle donne che lo ottennero in Irlanda e, a seguire, nei Paesi Bassi e in Svezia.
Il fondamentale contributo svolto per l’appunto durante la vicenda bellica sarà, diversamente declinato, un argomento centrale nel dibattito europeo. Papa Benedetto XV nel 1919 frugò i timori e le ostilità di un tempo e si dichiarò a favore della cittadinanza femminile, permettendo così un cambiamento di rotta a molti partiti politici di ispirazione cattolica.
Tutto questo non deve però farci dimenticare il primato che in Europa spetta alla Finlandia: qui il riconoscimento del diritto di voto alle donne avvenne nel 1906, in seguito alla promulgazione di una Costituzione liberale che prevedeva un proprio Parlamento monocamerale e si inseriva nel ciclo di lotte di stampo indipendentista dall’impero zarista.
La Norvegia sarà il primo paese autonomo a introdurre, nel 1913, il diritto di voto per le donne; la battaglia in questo senso era iniziata fin dal 1885 grazie ad un’associazione per il suffragio femminile fondata e guidata da Gina Krog. Alla Norvegia, seguiranno altri due paesi del Nord Europa: l’Islanda e la Danimarca che riconosceranno l’uguaglianza politica tra i sessi nel 1915. Le danesi in verità votavano già fin dal 1908 nelle elezioni amministrative per le quali, in tutta Europa, le resistenze erano state meno forti perché più tradizionale e legittimo era il ruolo delle donne nelle amminiatrazioni locali e in ambiti di loro competenza quali: scuola, sanità, assistenza. La vittoria in Danimarca concluse una lunga battaglia portata avanti da un movimento suffragista niente affatto di esclusiva impronta borghese – Matilde Bajer e Line Lulau ne furono le leader più rappresentative – che nel tempo aveva dato luogo a imponenti manifestazioni di piazza, la prima delle quali risalente al 1886. Più volte respinte le proposte di riconoscimento del diritto di voto alle donne, tali rifiuti furono, come sempre, legittimati anche in Danimarca in nome di una diversa psiche femminile, di una rappresentanza virtuale che il padre o il marito avrebbe esercitato per loro, in osservanza alla teoria delle sfere separate.
Come si ricorderà, la Svizzera riconoscerà il diritto voto alle donne solo nel 1971 dopo lunghe battaglie quanto mai accidentate, e il Liechtenstein nel 1984. Non sarà mai superfluo ricordare che difficoltà, rapporti di opacità tra le donne e la rappresentanza politica, così come gli atteggiamenti e le posizioni sessiste sono sempre radicati in questo passato così difficile.
Vinzia Fiorino docente all’Università di Pisa