I/le minori non accompagnate hanno diritto alla cittadinanza se questa è una loro scelta dopo un percorso formativo in Italia. Questo potrebbe essere una risorsa per il nostro paese che ha bisogno di giovani e di nuove energie
I e le minori stranier* non accompagnat* costituiscono sempre più un numero elevato nei percorsi migratori. Di questi ragazzi e ragazze sappiamo davvero poco. In questo articolo parlano due di loro. Raccontano dei loro sogni e dei loro progetti, parlano di matematica e di cucina, e naturalmente di cosa avvertono la mancanza. Raccontano anche di chi hanno conosciuto qui per i quali hanno pianto quando, compiuti diciotto anni, hanno lasciato l’Italia. C’è solo una cosa di cui non amano parlare: del loro viaggio, soprattutto del periodo trascorso in Libia
Tratta da pixabay.com di Cinzia Scorrano*
I minori stranieri non accompagnati: non solo ragazz* fragili
I/le minori stranier* non accompagnat* costituiscono sempre più un numero elevato nei percorsi migratori. Un problema da affrontare, soprattutto perché non si riesce, spesso, ad avere posti a sufficienza nei centri di accoglienza. Di questi ragazzi si conosce davvero poco perché, sfortunatamente, non si vuol entrare in contatto con loro, oppure non ci si interessa ai veri motivi dei viaggi, alla storia, alle testimonianze. Un po’ per paura del prossimo, un po’ per disinformazione. È anche per questo che ho condotto una ricerca su di loro, incontrandoli di persona in due centri di accoglienza. I minori stranieri non accompagnati non sono soltanto ragazzi fragili e vulnerabili ai quali assicurare accoglienza e tutela, ma anche cittadini attivi, capaci di mettere a disposizione della collettività le proprie competenze affinché siano utili per lo sviluppo di un territorio. Alcuni progetti innovativi, grazie alla collaborazione di enti locali, terzo settore e centri di accoglienza, hanno valorizzato le comunità in cui vivono, dimostrando che l’accoglienza procura vantaggi a tutta la popolazione.
La ricerca
Ho completato la ricerca presso due centri di accoglienza in Puglia, dove sono stata per una settimana, nel luglio di quest’anno. Il primo è il centro di accoglienza straordinaria (CAS) Casa Lama di Taranto, gestito dall’associazione Noi e Voi; il secondo è il centro di seconda accoglienza gestito dall’associazione Babele, a Grottaglie. La Puglia è la quinta regione in Italia per numero di minori stranieri non accompagnati, circa 1.000 sul totale dei 19.000 presenti sull’intero territorio nazionale. Una regione di frontiera del sud Italia; del resto, a Taranto è nato uno dei primi Hotspot in Italia e diversi comuni della provincia si sono attivati per accogliere i minori stranieri non accompagnati.
Sono stata ospitata volentieri da entrambi i centri: un’ottima accoglienza sia del personale, sia dei ragazzi che ci vivono. Non nego che all’inizio, i primi giorni, i ragazzi erano molto diffidenti e difficilmente rispondevano alle mie domande. Ma pian piano, con l’aiuto degli educatori, siamo riusciti a costruire un piccolo rapporto di fiducia e anche di amicizia reciproca. Mi hanno fatto vivere la loro quotidianità, le loro difficoltà, ma soprattutto la loro voglia di andare avanti e realizzarsi. Ognuno di loro ha tanti progetti: alcuni li hanno condivisi con me e mi hanno anche chiesto di aiutarli nel mio piccolo. Ho anche parlato molto con gli educatori, delle loro difficoltà in questo lavoro e soprattutto di come aiutano i minori ad integrarsi e ad essere autonomi una volta divenuti maggiorenni.
Nel complesso, ho parlato con cinque minori, tutti richiedenti asilo politico, che hanno sempre risposto alle domande in presenza dell’educatore o dell’assistente sociale. Con due di loro è dovuto intervenire il mediatore culturale, perché non conoscono ancora bene l’italiano.
Il CAS Casa Lama
Il centro di accoglienza Casa Lama accoglie in convenzione con la Prefettura di Taranto venti minori non accompagnati richiedenti protezione internazionale. La struttura è situata in una piccola villetta vicino al mare e offre servizi di vitto, alloggio, distribuzione generi di prima necessità e pocket money, un corso di lingua italiana, laboratori ed attività ricreative, consulenza legale, assistenza socio-psicologica e sanitaria, accompagnamento nelle procedure amministrative per il permesso di soggiorno e le pratiche di affidamento. La casa attualmente ospita undici minori, ci sono quattro operatori che coprono tutta la giornata compresa la notte su tre turni, è presente l’assistente sociale, un mediatore culturale, uno psicologo e quattro educatori. Il centro accoglie tantissimi volontari, che aiutano i ragazzi nei compiti con l’italiano e nelle varie attività. I minori presenti provengono da Costa D’Avorio, Senegal, Nigeria, Camerun e Mali. Hanno tutti tra i sedici e i diciotto anni (almeno da come risulta nell’accertamento dell’età, perché come tutti sono arrivati senza documenti). Tre di loro sono completamente orfani, non hanno nessun parente qui in Europa e non sono in contatto con nessuno nel loro paese d’origine.
Il centro offre diverse attività ricreative e di accoglienza, non solo per l’alfabetizzazione. Ad esempio, è stato creato un piccolo orto che i ragazzi curano ogni giorno. Come pure cercano di abbellire il più possibile la casa (nei giorni in cui ero presente io, i ragazzi stavano costruendo delle panchine di legno da mettere in giardino) e fanno attività di pittura. Gli educatori provano a far avere una vita quotidiana il più normale possibile ai ragazzi, organizzando la divisione delle pulizie, il rispetto degli orari dei pranzi e quello delle uscite. Li aiutano anche a conoscere il territorio e le sue regole, ad esempio quelle sulla raccolta differenziata.
Una delle attività create dall’associazione Noi e Voi che mi ha sorpreso più di tutte è il ristorante sociale ART. 21, chiamato anche “Il luogo delle calende”. Un ristorante sociale a due passi dal Mar Piccolo di Taranto, un luogo di incontro ecumenico, un punto di ritrovo della speranza, un posto davvero molto curato e accogliente. Si chiama come un articolo importante della Costituzione italiana: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Vincent, Camerun, 17 anni: “Voglio andare anche io all’università”
Al centro Casa Lama ho intervistato due ragazzi. Sono riuscita ad incontrarli dopo un po’ di giorni trascorsi con loro, costruendo con fatica un piccolo rapporto di fiducia e facendo capire loro che potevano anche non rispondere a tutte le mie domande e che non li avrei giudicati, ma anzi sarei stata felice se avessi potuto dare loro qualche consiglio. Il primo ragazzo è Vincent del Camerun (il nome è di fantasia). Diciassette anni, in Italia da un anno, nelle mattinate spese presso il centro l’ho aiutato a dipingere dei disegni (molto belli) che aveva fatto sul muro della sua stanza, ed è così che sono riuscita ad entrare più in confidenza con lui.
Vincent, perché fai questi disegni? Disegnavi a casa tua? Questo vuoi fare da grande? Disegnare? “Sì, disegnavo qualche volta a casa, li faccio così qui diventa tutto più colorato e poi chi viene dopo sarà contento di stare in una stanza così. Da grande voglio solo lavorare”. Stavi bene a casa? “Sì, quando c’era mamma sì, ora papà è troppo vecchio e io devo occuparmi di lui, sono io ora l’uomo di casa, devo fare tutto io”. Vincent è orfano di mamma e il papà da quello che mi ha detto è tanto anziano ed è per questo che è venuto qui, per trovare lavoro e aiutare la famiglia con le due sorelle più piccole. Papà e le sorelle sapevano che partivi? Ora li senti? “No, non lo sapevano. Li ho avvisati io quando sono arrivato, è meglio farli stare tranquilli, sì sì ora li sento ogni tanto quando Raffaella [l’assistente sociale] mi dà i soldi a fine mese li mando a loro, ma io voglio trovare subito lavoro”. Fra qualche mese compi diciotto anni, che fai dopo? Resti qui? “No qui a Taranto no, la gente non ci vuole bene, voglio andare via dall’Italia, ho amici in Francia, vado lì, potrò lavorare e poi far venire le mie sorelle”. Quale lavoro vuoi fare Vincent? “Qualsiasi, so fare tante cose, anche aggiustare le macchine. Anche il cuoco, Raffaella mi ha fatto fare un mese di corso, è bello, mi piace”. Ti trovi bene qui al centro? “Sì, ci vogliono bene, tutti si preoccupano per noi, anche se facciamo un po’ tardi la sera”. Vincent, posso chiederti del viaggio? Com’è stato? “No, non parlo, perché è stato brutto, non ho mangiato per tre giorni in Libia, solo bevuto acqua, lì sono cattivi, le donne le picchiano, non voglio mai più tornare lì”.
È difficile parlare del viaggio: quando provavo a chiedere qualcosa, i ragazzi cambiavano discorso, oppure scherzando mi dicevano di essere venuti in aereo. Rifaresti il viaggio? Ti manca casa, la tua famiglia, il tuo paese? “Sì, per aiutare la mia famiglia, no per il viaggio, è tutto difficile qui, pensavo che fosse diverso. Sì manca casa, ma non ci penso, ormai sono partito, mi manca il cibo delle mie sorelle e tutto quello che facevano in casa”. Ah allora vivevi bene, ti coccolavano le tue sorelle? “Certo, loro sono donne, devono pulire, cucinare, lavare. Io pensavo ad altro, però loro andavano a scuola, io non più, dovevo trovare lavoro”. Quindi non andavi a scuola? Ti sarebbe piaciuto studiare? “Ho fatto solo sette anni di scuola, sì mi piaceva studiare, volevo continuare infatti, voglio andare anche io all’università, quando sarò in Francia andrò a scuola e poi all’università, però prima cercherò lavoro”.
Vincent mi ha raccontato che è arrivato qui senza niente, vestiti, soldi, cibo. È sceso a Brindisi che aveva solo una cosa personale, una collana in tasca della madre con un crocifisso, mi ha detto che è evangelista e va tutte le domeniche a messa. Lì in chiesa hai conosciuto altri ragazzi? “No, però ormai la gente mi conosce, anche il prete, mi ha chiesto se voglio cantare nel coro, ci sto pensando. Qui non si canta molto in chiesa, dai noi nelle chiese evangeliste si canta tanto, la gente è felice quando va in chiesa, qui invece sono tutti molto tristi, noi ridiamo sempre”. Nei giorni in cui l’ho visto, parlava spesso al cellulare con degli amici. Vincent, ma hai amici camerunensi qui in Italia? “Si, ho due amici che sono a Torino, sono grandi però, più grandi di me, erano in Camerun anche loro, nella mia città, ora sono qui. Stiamo pensando insieme di andare via, quando io faccio diciotto anni. Insieme possiamo aiutarci, qui da soli non è facile”.
Ibrahim, Senegal, sedici anni: “Non sapevamo che arrivare qui voleva dire rischiare di morire”
Il secondo ragazzo con cui ho parlato è Ibrahim (anche questo un nome di fantasia), sedici anni, del Senegal, in Italia da un anno e mezzo. L’ultimo giorno sono stata al mare con i ragazzi del centro, tutti facevano il bagno tranne lui. Ibrahim, perché non fai il bagno? “Non so nuotare, e poi mi fa venire in mente tanti ricordi brutti del viaggio”. È stato difficile il viaggio? “Sì, quando sono salito sulla barca tutti vomitavano, non guidavano bene e ci trattavano male, alcuni sono anche caduti, nessuno parlava e tutti erano spaventati, non si vedeva niente, era notte. Quando sono arrivati i soccorsi stavamo tutti male, avevamo freddo, fame, c’erano tante donne che piangevano durante il viaggio e chiedevano aiuto per i figli. Sono cose che non dimentico”. Sei stato in Libia? Per quanto tempo? “Sì, ma poco tempo, un mese. Ma non sono stato preso dagli arabi. Ho pagato e sono salito sulla barca”. Come mai sei venuto qui? “Perché voglio avere una vita migliore, in Senegal non si vive bene, non c’è lavoro, voglio studiare e lavorare”. Cosa vuoi fare qui? Vuoi restare in Italia? “Non volevo stare qui, cioè sono venuto per andare in Inghilterra, però mi piace l’Italia, cucinate proprio bene. Io voglio studiare dopo, mi hanno detto che posso studiare e vivere in qualche posto insieme ad altri studenti. Mi piacerebbe studiare, qualcosa con i numeri, in matematica a scuola sono bravo”. In Senegal hai la famiglia, la senti? Sapevano che venivi? “Sì, sento la mamma, mi dice che manco a tutti, loro non volevano che partissi. Ma non sapevamo che qui era così difficile, che arrivare qui voleva dire rischiare di morire. Quando sarò maggiorenne che trovo lavoro torno con l’aereo a casa”. Vorresti andare in una famiglia Italiana? “Non lo so, se mi aiutano sì, vorrei andarci”. Conosci altri ragazzi senegalesi in altre città italiane? “Si, sono a Roma, li ho conosciuti durante il viaggio, ci sentiamo per telefono”. Cosa ti manca nel centro? Taranto ti piace? “Abbiamo tutto, però siamo un po’ limitati, non possiamo fare quello che vogliamo, per i documenti e perché siamo piccoli. Però ci vogliono tutti bene. Appena posso vado via, ma vorrò sempre bene a tutti. Taranto non mi piace, dicono che non posso studiare per andare all’università e non c’è lavoro qui”. Hai fatto amicizie? “Non tanto, con alcuni ragazzi del centro sì, ma è meglio non affezionarsi tanto, perché poi quando parti piangi. Due mesi fa è andato via un amico, ho pianto tanto, è diventato maggiorenne ed è andato in Francia da amici suoi, mi manca molto”. Ibrahim sei comunque felice di stare qui? “Solo un pochino, però ci sono tanti ragazzi che stanno peggio nel mio paese, quindi ringrazio Dio”.
Sono solo due storie di vita, di due minori stranieri senza nessuno, come tanti altri ce ne sono in giro per l’europa. Du esempi utili a far conoscere e condividere il più possibile le scelte, la vita, i percorsi, le motivazioni, ma soprattutto le speranze di questi ragazzi, che il più delle volte hanno solo sogni e progetti da realizzare. Proprio come tutti noi.
*Cinzia Scorrano si è laureata in Sociologia e Politiche Sociali all’Università di Perugia nel 2018 con una tesi dal titolo “I minori stranieri non accompagnati nel welfare italiano”, da cui questo articolo prende spunto.
Fonte: ribalta.info