Ina Praetorius rilancia: ogni lavoro deve essere di cura. Entusiasmo e qualche perplessità
di Giovanna Pezzuoli
Un centinaio di donne sedute tutte intorno alla relatrice, quella “rompiscatole post- patriarcale” (come le stessa si definisce) di Ina Praetorius, hanno animato l’altra sera il dibattito all’Agorà del lavoro di Milano, che è stato denso di suggestioni. Ina, donna di autorevole bellezza, partendo da un unico dato significativo, la presenza a Davos nel 2014 di solo il 25% di donne, ha rilanciato: occorre ripensare tutta l’economia dall’inizio, dai bisogni reali degli esseri umani, tutti ex poppanti. E spazzare via il simbolico che ancora mette al centro dell’universo un maschio adulto, libero di partecipare a un’economia di mercato, passando sotto silenzio quell’indispensabile lavoro di cura che è il settore maggiore dell’economia.
Ex poppanti, dicevamo, che magari sostengono “la mia vita me la sono guadagnata da solo” e dimenticano di aver ricevuto gratis per anni tutto il necessario per vivere. Teoria troppo astratta? Ma la bellezza del pensiero di Ina, secondo me, è proprio la capacità di collegare visioni filosofiche con impegni concreti. Come il reddito di base incondizionato, alla cui campagna in Svizzera Ines Praetorius ha partecipato, seppure non rinunciando a contestarne in più occasioni gli organizzatori. Perché questo reddito per tutti (sganciato da qualsiasi condizione) non è solo una garanzia di maggiore libertà (come sostengono gli uomini) ma anche un modo per riorganizzare in modo nuovo le attività necessarie per vivere. E quante sono le attività necessarie di cui si fanno carico le donne senza riceverne in cambio incentivi economici? La questione per Ina è capire che tutti noi esseri umani siamo dipendenti nella cura. E da questo deriva che da adulti ogni atto è un atto di restituzione. Ma che cos’è questa cura? Se il paradigma è la relazione con il bambino piccolo, il concetto si può poi allargare fino a una postura di responsabilità di uomini e donne nei confronti del mondo e dell’ambiente.
Le prime obiezioni alla parola “cura” sono venute da Lea che ha sottolineato come la cura, evocando inevitabilmente il paradigma domestico e l’idea del materno, è una parola “pesante”, porta cioè il peso di una storia che l’ha considerata destino femminile. “Non si sposta la cura dal privato al pubblico senza rimetterla in discussione”, ha concluso Lea, confessando di non amare nemmeno la figura di Penelope, evocata da Ina, in quanto figura dell’attesa, della fedeltà, della ripetizione dell’uguale. Ma la teologa tedesca ribadisce che ogni lavoro deve essere di cura, sia che io cresca un bambino, sia che mi occupi di un giardino o produca una macchina. Sposta un po’ il focus Giordana, ricordando che in Italia esiste un’area di donne che vogliono connotare in modo femminista la battaglia sul reddito, ma occorre dare peso anche alle donne che si trovano a combattere sul luogo di lavoro soprattutto per avere più tempo e portare l’esperienza della cura dentro il lavoro.
Ma è stata l’insistenza sul dono e sulla gratitudine che ne deriva, in senso più ontologico che etico, ad aver suscitato altre perplessità nelle donne intervenute al dibattito. Per Loretta, per esempio, l’idea del dono cancellerebbe la dimensione della relazione e del desiderio. A me interessa capire che cosa muove il piacere di curare, ha aggiunto Antonella. Ma noi non abbiano chiesto di nascere, ha osservato Rosaria, siamo dunque in debito o in credito? E qual è la misura dell’uno e dell’altro? A questo punto il discorso si è spostato sulla necessità di trovare una “misura”: che cosa mettiamo cioè al posto dei soldi in un’economia ribaltata? Il reddito di base non abolisce lo stipendio, sottolinea Ina, dice solo che ci vuole una quantità minima di soldi per vivere, la misura è la sopravvivenza che deve essere garantita.
La sinistra propone di riorganizzare la società con una occupazione piena e una redistribuzione del reddito, mentre altri dicono che il lavoro di cura va pagato ovvero professionalizzato. Ma le cose non stanno così: il lavoro di cura non è traducibile in lavoro stipendiato. Secondo Maria Grazia il reddito di base dà la possibilità di avere una scelta: cioè se ho abbastanza per sopravvivere sono meno ricattabile e posso fare un lavoro che abbia un senso anche per la collettività. Mettendo in scacco l’attuale capitalismo che pare non lasciarci una via d’uscita. Una posizione con cui Ina è d’accordo: così non avremmo più “scuse”. Ritornano infine le perplessità sul nome “cura”, forse sarebbe meglio parlare di “attenzione”, oppure, come suggerisce Lia, si dovrebbe usare la parola “relazione” non solo tra persone ma anche come pratica politica. Ma non fermiamoci sulle parole, è infine il saggio invito di Silvia: la “misura” salterà fuori man mano che contratteremo, consapevoli del fatto che non è il denaro la vera molla del lavoro, ma il riconoscimento e la passione (www.Giulia.globalist.it).
Ex poppanti, dicevamo, che magari sostengono “la mia vita me la sono guadagnata da solo” e dimenticano di aver ricevuto gratis per anni tutto il necessario per vivere. Teoria troppo astratta? Ma la bellezza del pensiero di Ina, secondo me, è proprio la capacità di collegare visioni filosofiche con impegni concreti. Come il reddito di base incondizionato, alla cui campagna in Svizzera Ines Praetorius ha partecipato, seppure non rinunciando a contestarne in più occasioni gli organizzatori. Perché questo reddito per tutti (sganciato da qualsiasi condizione) non è solo una garanzia di maggiore libertà (come sostengono gli uomini) ma anche un modo per riorganizzare in modo nuovo le attività necessarie per vivere. E quante sono le attività necessarie di cui si fanno carico le donne senza riceverne in cambio incentivi economici? La questione per Ina è capire che tutti noi esseri umani siamo dipendenti nella cura. E da questo deriva che da adulti ogni atto è un atto di restituzione. Ma che cos’è questa cura? Se il paradigma è la relazione con il bambino piccolo, il concetto si può poi allargare fino a una postura di responsabilità di uomini e donne nei confronti del mondo e dell’ambiente.
Le prime obiezioni alla parola “cura” sono venute da Lea che ha sottolineato come la cura, evocando inevitabilmente il paradigma domestico e l’idea del materno, è una parola “pesante”, porta cioè il peso di una storia che l’ha considerata destino femminile. “Non si sposta la cura dal privato al pubblico senza rimetterla in discussione”, ha concluso Lea, confessando di non amare nemmeno la figura di Penelope, evocata da Ina, in quanto figura dell’attesa, della fedeltà, della ripetizione dell’uguale. Ma la teologa tedesca ribadisce che ogni lavoro deve essere di cura, sia che io cresca un bambino, sia che mi occupi di un giardino o produca una macchina. Sposta un po’ il focus Giordana, ricordando che in Italia esiste un’area di donne che vogliono connotare in modo femminista la battaglia sul reddito, ma occorre dare peso anche alle donne che si trovano a combattere sul luogo di lavoro soprattutto per avere più tempo e portare l’esperienza della cura dentro il lavoro.
Ma è stata l’insistenza sul dono e sulla gratitudine che ne deriva, in senso più ontologico che etico, ad aver suscitato altre perplessità nelle donne intervenute al dibattito. Per Loretta, per esempio, l’idea del dono cancellerebbe la dimensione della relazione e del desiderio. A me interessa capire che cosa muove il piacere di curare, ha aggiunto Antonella. Ma noi non abbiano chiesto di nascere, ha osservato Rosaria, siamo dunque in debito o in credito? E qual è la misura dell’uno e dell’altro? A questo punto il discorso si è spostato sulla necessità di trovare una “misura”: che cosa mettiamo cioè al posto dei soldi in un’economia ribaltata? Il reddito di base non abolisce lo stipendio, sottolinea Ina, dice solo che ci vuole una quantità minima di soldi per vivere, la misura è la sopravvivenza che deve essere garantita.
La sinistra propone di riorganizzare la società con una occupazione piena e una redistribuzione del reddito, mentre altri dicono che il lavoro di cura va pagato ovvero professionalizzato. Ma le cose non stanno così: il lavoro di cura non è traducibile in lavoro stipendiato. Secondo Maria Grazia il reddito di base dà la possibilità di avere una scelta: cioè se ho abbastanza per sopravvivere sono meno ricattabile e posso fare un lavoro che abbia un senso anche per la collettività. Mettendo in scacco l’attuale capitalismo che pare non lasciarci una via d’uscita. Una posizione con cui Ina è d’accordo: così non avremmo più “scuse”. Ritornano infine le perplessità sul nome “cura”, forse sarebbe meglio parlare di “attenzione”, oppure, come suggerisce Lia, si dovrebbe usare la parola “relazione” non solo tra persone ma anche come pratica politica. Ma non fermiamoci sulle parole, è infine il saggio invito di Silvia: la “misura” salterà fuori man mano che contratteremo, consapevoli del fatto che non è il denaro la vera molla del lavoro, ma il riconoscimento e la passione (www.Giulia.globalist.it).