Indipendenti. Da chi? Perché? un saggio di Serena Carbone su AlfaBeta2
Serena Carbone
Parigi 1884: nasce il Salon des Indépendants che si proponeva di essere libero dalle istituzioni, dai premi e dalle giurie. Le avvisaglie di questa presa di posizione erano già chiare nel 1874 quando nello studio di Nadar esposero gli “artisti indipendenti” ovvero coloro i quali erano stati rifiutati dall’accademia ufficiale e si erano ritrovati una decina d’anni prima nel Salon des Réfusés. Il Salon des Indépendant fu culla delle avanguardie storiche, il Salon des refusés dell’impressionismo.
Dall’altra parte dell’Oceano, a New York, era il 1916 quando l’orinatoio capovolto e firmato R.Mutt fu presentato alla Society of Independent Artists, Duchamp era uno dei suoi membri. Alla chiusura dell’esposizione, a orinatoio ormai buttato chissà dove, apparve sul numero due della rivista satirica The Blind Man un editoriale non firmato dal titolo The Richard Mutt Case, con accanto una fotografia di Alfred Stieglitz intitolata Fountain by R.Mutt, accompagnata dalla didascalia The exhibit refused by the Indipendents.
L’essere indipendenti – al tempo in cui la pittura e la scultura erano linguaggi codificati, e l’installazione neanche esisteva se non in embrione nell’idea di opera d’arte totale – ha rappresentato sia la volontà di non sottostare a un canone sia la contestazione del sistema accademico, ma agli inizi del XX secolo le cose cambiano e l’ente indipendente fagocita l’opera indipendente rigurgitandola in una pattumiera, anche se si tratta del primo ready-made mai esposto. La società degli artisti indipendenti è diventata essa stessa sistema.
Oggi l’“essere indipendenti” è tornato in auge, ma più che nella creazione di nuovi linguaggi come modalità di gestione di spazi alternativi a quelli istituzionali. Detto così sembrerebbe una questione da ricondursi a una semplice contrapposizione, da una parte l’istituzione dall’altra lo spazio indipendente, ma a ben guardare le cose sono parecchio più ingarbugliate.Ne è chiaro l’eco in The Independent, il progetto del MAXXI di Roma a cui hanno aderito più di cento spazi tra quelli fisici veri e propri e quelli virtuali, tra cui trovano posto anche le riviste online; in NESXT-Independent Art Network, festival e piattaforma online nata a Torino tre anni fa che mira a creare una rete tra le diverse realtà indipendenti del territorio nazionale e non solo; in SPAZI, progetto avviato a Milano più o meno con la stessa mission del precedente, ma anche – se si ragiona in termini quantitativi – nelle sezioni dedicate sia dentro Art Verona che nel circuito City di Arte Fiera a Bologna. E volendo continuare in senso lato, come non definire indipendente la gestione del MACRO – divenuta nel giro di un anno la vera questione romana dell’arte – che bypassando il concetto di mostra ha aperto il museo a una serie di “presenze” e “azioni” rinnovando il vecchio assunto dei Salons: l’assenza di una giuria.
Il fenomeno negli anni Duemila è complesso perché non riguarda solo il linguaggio artistico ma anche il sistema neoliberista che regola il mercato, il lavoro creativo, e ugualmente gli spazi del tempo libero (come gli stessi musei), oltre il problema molto italiano dei finanziamenti alla cultura e l’influenza in questo esercitata dalla politica. Uno dei motivi di questa nebulosità di definizione si potrebbe allora ricondurre proprio al fatto che quando la parola indipendente oggi fa capolino nell’ambito artistico sposta l’attenzione dall’oggetto-opera al soggetto-produttore, quindi su quell’operare che poi investe sia l’artista che l’opera. Del resto opera, artista e operazione sono allo stesso tempo autonomi e legati l’uno all’altro come le fila del nodo borromeo che – come dice Giorgio Agamben – può essere assunto come metafora della “macchina artistica” della modernità.
Premesso questo, si proverà a individuare alcuni fattori che caratterizzano il fenomeno, con la precisazione che questi fattori non è detto si ritrovino in tutti i progetti sopracitati. Elencati così infatti questi progetti sembra popolino la luna, quella di Ariosto, dove andavano a finire le cose perse, il senno sì ma anche le vanità, la fama che divora gli esseri sulla terra, le preghiere e le promesse, le lacrime e le sofferenze degli amanti, il tempo sprecato e l’ozio degli ignoranti, perché sulla Luna «ciò che in somma qua giù perdesti mai,/là su salendo ritrovar potrai».
E allora cosa si è perso quaggiù da dover ritrovare lassù? Si pensi a quanto sia mutato il ruolo delle gallerie dagli anni Novanta ad oggi. Fino ad allora lo spazio della galleria era sì il luogo in cui l’arte incontrava il mercato, ma anche il luogo in cui l’artista si confrontava con il gallerista (una sorta di storico antiquario con gli occhi rivolti al presente che conserva e adora), e con il collezionista che sosteneva spesso la ricerca in toto, tanto da prendersi cura di un lavoro che non era funzionale alla sola vendita, ma alla vita stessa dell’opera e dell’artista fuori di lì. In molti spazi indipendenti, allora, ciò che si ritrova è il tempo del dialogo. Quel tempo pre-esposizione (e penso anche alla progettazione museale incalzata sempre più da ritmi pressanti e da macchina da grandi eventi), il tempo del pensiero che – come il tempo dei sogni è diverso da quello del corpo – richiede fatica, disciplina, dedizione. Ma se esiste un “ritrovare” che viene dal passato e che include anche quelle esperienze dove preponderante è stato l’elemento psicologico-comportamentale, performativo e testuale, sviluppatesi parallelamente alla Transavanguardia e l’Arte Povera (come il Gruppo di Piombino, il centro studi Jartrakor, fino ad arrivare agli anni Novanta con i Giochi del Senso e Non-Senso, Disordinazioni e non ultimo Progetto Oreste), c’è anche un costruire ex-novo all’interno di un contesto preciso in cui – e cito ancora una volta Agamben – si assiste a una sempre più massiccia museificazione della cultura. Le pratiche indipendenti riportano l’operare infatti nella vita quotidiana, in luoghi con un’identità che si va ad enfatizzare, contestare, mutare grazie agli interventi che ivi si fanno, o viceversa porta la vita laddove il torpore incombe più silente della morte stessa. Si innesca così una pratica che si oppone al white cube prediligendo invece atmosfere intime, familiari, in cui si è a proprio agio con gli altri e con l’opera, opera che trova il suo senso in combinazione con il contesto e che assume alle volte l’aspetto di décor, décor inteso come quella capacità di questionare le dinamiche sia etiche che estetiche del mondo.
In conclusione, tralasciando il fattore più umano ovvero che questi spazi per alcuni siano delle anticamere al sistema, si avanza la possibilità che per comprendere il fenomeno dell’indipendenza nell’arte oggi, probabilmente più che partire dalla domanda da chi essere indipendenti (il caso Mutt la dice lunga in proposito), si dovrebbe chiedere a che cosa serve essere indipendenti? Perché se l’obiettivo è il disinnesco della macchina artistica allora si ha in mano un mezzo molto potente, quello dell’operare; l’operare difatti coniuga lo spazio con l’azione e il linguaggio e muta al mutar delle circostanze. Il bisogno di operare differentemente non può allora derivare da fattori esterni (un chi da cui essere indipendenti), se non come conseguenza. Il bisogno (non indotto) nasce da una consapevolezza e conoscenza degli ingranaggi del culturale quand’anche si tratti di industria culturale, e ciò non pone il soggetto in antitesi all’istituzione ma al suo stesso interno al fine di intervenire nelle dinamiche che lo muovono. Quando questo bisogno viene meno, come quello di scrivere o di leggere, allora l’indipendenza è come l’inflazione, più aumenta più ne diminuisce il valore; scriveva infatti Gertrude Stein:«Non c’è dubbio, nel ventesimo secolo se ci si mette a scrivere non ci si può guadagnare la vita non certo scrivendo. Avveniva nel diciannovesimo secolo ma non nel diciottesimo e neanche nel ventesimo no è impossibile. E questo è molto strano, non proprio stranissimo ma però molto strano. Nel diciottesimo secolo non si leggeva abbastanza perché uno si guadagnasse la vita scrivendo, il diciannovesimo secolo andava proprio bene e stava tra i due. Troppo pochi è tanto come troppi».