Insegnare la lingua italiana
Chiedersi cos’è una lingua e come s’impara ad amarla, come fare a collegare perfino la grammatica alla propria vita. È su questo che occorre confrontarsi e immaginare strade che ripensano la scuola e propongono la cultura come apprendimento critico. Lo spiega in questo saggio Iole Ottazzi, per molti anni insegnante di lettere e dirigente scolastica attiva nel Movimento di cooperazione educativa. Il filo che lega la lettera dei seicento e l’articolo di Susanna Tamaro, invece, sembra soltanto una sciocca nostalgia per la scuola con un solo copione, quello dell’insegnante che spiega e tu studi per un buon voto. La lettera e l’articolo sottovalutano gli enormi cambiamenti sociologici e antropologici in corso che precipitano sui linguaggi dei più piccoli (comunicazioni brevi, ascolto passivo…), ignorano studi e sperimentazioni di linguistica, semiologia, sintattica e cercano un capro espiatorio scaricando le responsabilità su altri.
Articolo di Iole Ottazzi*
Sono una donna di sessantanove anni che ha trascorso tutta la sua vita professionale all’interno della scuola, prima come insegnante di scuola elementare, poi di scuola media, nel ruolo di docente di lettere ed infine come dirigente scolastica per venticinque anni. Attualmente sono in pensione e continuo ad interessarmi di formazione per docenti di scuola primaria e secondaria di 1° (specie nel campo dell’educazione linguistica e semiologica e della didattica generale). Mi occupo inoltre di formazione per dirigenti scolastici relativamente al rapporto tra aspetti organizzativi e didattico-pedagogici.
In questi ultimi tempi ho notato, sulla stampa nazionale, una certa frequenza di articoli che manifestavano un interesse nei confronti del ruolo e dell’importanza dell’insegnamento della lingua italiana e questo è certamente un bene; ma gli argomenti richiamati e le soluzioni proposte non mi trovano d’accordo.
Nella mia carriera scolastica ho visto passare circa sei mila alunni; li ho visti non nascondendomi dietro a pile di scartoffie, circolari e controcircolari, ma affiancando i docenti nella loro attività di programmazione, i genitori nel tentativo di comprendere, per quanto possibile, le innumerevoli difficoltà nell’affrontare un ruolo diventato così difficile e i bambini, per non dimenticare cosa significa star loro vicino, fornendo strumenti non spuntati per vivere in un mondo fattosi così complesso…e l’ho fatto continuando a leggere e a studiare per non vivere di una cultura stantia.
Non parlo quindi per sentito dire.
Partiamo da una rapida carrellata, fatalmente sintetica e generale, sulle condizioni linguistiche e comunicative nelle quali i nostri ragazzi sono immersi.
I formati di base sono quelli televisivi e quelli della rete, delle comunicazioni brevi di Whats’ App, di Facebook, Twitter…, di famiglie in cui si mangia ad orari diversi perché diverse sono le esigenze…, di presenze, nella società e nella scuola, di lingue e visioni del mondo anche profondamente differenti.
Le strutture linguistiche a cui sono esposti sono quelle dell’ascolto passivo, delle battute, della comunicazione fondata sulla capacità di fare la voce più grossa, sugli insulti e non sull’argomentazione…e, a dare questo esempio, sono proprio quegli adulti che sono passati attraverso il cosiddetto rigoroso studio della grammatica…
Pensiamo solo agli strafalcioni di alcuni politici… o agli slogan pubblicitari che stanno diffondendo una lingua fatta di “più buono” (anziché migliore), di congiuntivi scomparsi…
La mia prima conclusione è quindi: siamo di fronte ad una serie di cambiamenti sociologici, antropologici dalle conseguenze inimmaginabili di cui gli “illustri” firmatari non si curano, limitandosi a denunciare le carenze linguistiche dei loro studenti e attribuendone la responsabilità al mancato studio scolastico di grammatica, sintassi e lessico nella scuola primaria (degli altri livelli si tace…).
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Se si affianca il contenuto di questa lettera all’articolo di Susanna Tamaro, recentemente comparso sulla stampa nazionale, alle differenti opinioni all’interno dell’Accademia della Crusca (che vede diversamente schierati alcuni suoi rappresentanti), se si risale agli originali promotori del dibattito (gruppo di Firenze che colloca questa iniziativa all’interno di una linea di politica scolastica che ci riporterebbe ai tempi dei Programmi – alla faccia dell’autonomia- alle classi differenziali – alla faccia dell’integrazione – alla selezione -che si è sempre dimostrata selezione di classe….), si ha un quadro dell’orizzonte all’interno del quale si colloca l’attacco alla scuola primaria ed alle Indicazioni Nazionali (documento che fornisce – come chiarito nel suo nome – le indicazioni per l’arco formativo che va dai 3 ai 14 anni – e che ha tra i suoi ispiratori Edgar Morin, il nostro Mauro Ceruti, nomi che, per quanto riguarda le problematiche della complessità e delle possibili risposte alle relative conseguenze, non possono essere certo accusati di disinformazione e cultura sessantottina).
Vediamo i principi ispiratori di questo vero e proprio fuoco di fila (di carattere più generale nella lettera dei 600 accademici e più specifico nell’articolo della Tamaro o di carattere addirittura riduttivo-miracolistico in qualche articolo o blog dedicati al potere taumaturgico del vecchio riassunto (altra questione sarebbe quella di parlare dei modi in cui si costruisce un buon livello dell’importantissima capacità sintetica).
Proviamo a elencare alcune elementi d’orientamento per la lettura delle argomentazioni addotte:
1 – Lo scritto viene ridotto a pensierini, dettati sulle difficoltà ortografiche, riassunti, temi (Tamaro) (che, in realtà, nella maggior parte dei casi, chiedono come abilità di fondo quella di corrispondere a quello che l’insegnante pensa su un dato argomento).
2 – La riflessione sulla lingua in entrambi i documenti è ridotta allo studio e all’applicazione di una serie di regole fonetiche, grammaticali, sintattiche cui ottemperare e che sarebbero alla base di un “buon pensare” e che vengono evocate (in questo caso solo dalla Tamaro) con rimpianto della grammatica del “sul qui e sul qua l’accento non va”.
3 – Non si fa neppure un cenno ai vizi derivanti da una pratica di parlato, esclusivamente rivolto all’insegnante (parla quando sei interrogato), volta all’accertamento dello studio da pagina a pagina e non calibrata sulla base di destinatari, scopi, contesti.
4 – L’ascolto dell’altro per coglierne gli argomenti, le politiche, gli scopi, accettarli, rifiutarli in tutto e/o in parte è qualcosa che non compare come obiettivo di una scuola seria.
È facile immaginare che l’armamentario di questi signori sia quello di temi, riassunti, dettati, esercizi, libro di lettura e sussidiario, interrogazione e voto.
Un unico copione: rispondere all’insegnante durante l’interrogazione.
Un unico formato: io spiego e tu studi perché devi ottemperare.
Un unico scopo: avere un buon voto.
“… E beh?! – potrebbe dire qualcuno – che c’è di male? Questa è la scuola, a questo ci si deve abituare: fare fatica, obbedire, fornire le prestazioni richieste”. Semplice, no? E ancora: “Quando la scuola era seria, chi studiava andava avanti e chi non ce la faceva veniva punito con la bocciatura e poi” – e poi? – “e poi, se non studiava, andava a lavorare”. (Impossibile, in questa sede, aprire anche questo capitolo).
“… e tu che critichi tanto questo modello, cosa avresti da proporre? Una scuola di ignoranti in cui non si sa più scrivere “Ha” con l’acca? In cui i ragazzi non sanno più esprimersi oralmente? Una scuola in cui non si studia più, si gioca e non si è più responsabili di quello che si è chiamati a fare?”.
A parte gli approfondimenti che sarebbero necessari rispetto al cambiamento delle condizioni sociali, economiche, antropologiche del mondo in cui viviamo che rifluiscono come un vero e proprio tsunami su una scuola lasciata da sola ad affrontare complessità drammatiche; a parte i penosi tentativi di riforme di facciata (il nostro Renzi ha pensato bene di “trasformare” il settore scolastico con la cosiddetta riforma della “buona scuola” che ha portato ulteriori contraddizioni in un mondo che, già sottoposto a continui stress, dovrebbe, invece, essere seriamente affiancato sia dal punto di vista culturale – modalità d’ingresso dei docenti, di formazione in servizio – che da quello degli organici, delle strumentazioni, degli stipendi…); a parte… i vari e non irrilevanti “a parte” inaffrontabili in questa sede, se e come è possibile rispondere a chi, pur comprensibilmente, dice: “… e tu cosa avresti da proporre? Esistono dei “fondamenti”, dei “principi fondanti nel sapere — gli elementi, appunto, in altre parole, qualcosa di universale e stabile nel tempo” (Tamaro). … e lo studio della grammatica ne fa parte?
Chiediamoci cos’è una lingua e come s’impara ad amarla (perché questo dovrebbe essere il compito della scuola primaria e non primaria). Come s’impara a farne lo strumento principe della nostra identità, quello che consente di riconoscerci e di conoscere il mondo in cui siamo immersi, di entrare in quell’universo di segni che consente agli uomini la grande “magia” di saper evocare le cose anche in loro assenza.
Noi insegnanti siamo testimoni e stampelle di questa lunga marcia dei bambini verso i significati e noi stessi continuiamo, da adulti, a trasformare il nostro universo di senso, sottoponendolo a critica più o meno esplicita, attraverso esperienze, anche dolorose, che ci rendono quelli che siamo.
Di questo mondo di senso, le regole sono una parte fondamentale. “Ma..allora… non ti contraddici? Se le regole sono importanti, bisogna insegnarle!”. Allora cominciamo col dire che di regole alla base del funzionamento della lingua ce ne sono tante: fonetiche, grammaticali, morfologiche, sintattiche, semantiche (ovvero relative al costituirsi dei significati), testuali, narratologiche, pragmatiche (relative alle situazioni concrete in cui una comunicazione si realizza: non diresti mai al tuo prof. universitario: “Su prof., diamoci un taglio… questa è una stronzata che non mi serve a niente!”. Quando e come hai imparato queste regole? L’uso dell’H (peraltro importante) ti rende conto di questi aspetti? Quali esperienze devi fare per imparare queste norme di cui non ti parla mai nessuno, ma che valgono come i Dieci Comandamenti? …
Diciamo pure che se, per brevità, si vuol ridurre il discorso alle regole grammaticali, il cuore della questione va direttamente ricercato in quella splendida definizione che della lingua fornisce Ferdinand De Saussure (non era un noto rivoluzionario che di lingua poco sapeva). Ha “solo” posto le basi della linguistica moderna. Lui ci dice: lingua come rapporto tra Langue (serbatoio di regole che consentono di capirci sulla base di convenzionalità accettate e peraltro sempre in movimento) e Parole (come atto individuale d’uso di questo patrimonio per esprimere bisogni, paure, necessità, speranze..). Il tutto attraverso quello che lui stesso ha definito “la scomoda presenza del parlante”.
Come avvicinarsi a quest’edificio? Dicendo: “Si fa così?”. Presentando una lingua già decisa da qualcuno che ti precede sempre o appassionando i bambini alla scoperta, al gioco linguistico (come non ricordare l’insegnamento di Umberto Eco? Leggi, ad esempio, le mitiche “40 regole per scrivere bene in italiano”, ndr), all’individuazioni di ricorrenze che ti fanno scoprire le risposte che il corpo sociale ha dato a certi problemi.
Le regole ci sono, sono importanti e si possono scoprire, coglierne il senso ed entrare nella storia dell’eredità culturale dalla porta principale con il giusto rispetto ma, con la passione degli eredi che cercano di capire il lavoro e le scelte di coloro che li hanno preceduti.
Ho visto generazioni di bambini arrivare in prima con l’emozione di chi sta per varcare le porte del mistero, quelle da cui si spera d’uscire avendo acquisito uno dei poteri fondamentali: quello del saper leggere e scrivere.
Li ho visti uscire o con quella stupenda vitalità che solo una scuola motivante sa produrre: curiosi, pieni di domande, desiderosi di confrontarsi con gli altri, capaci di sospendere il giudizio e non sparare sentenze, capaci di porsi delle domande sul perché le cose funzionavano in un certo modo. Oppure “strinati come polli” con lo sguardo triste di chi entra in classe con un’unica speranza: uscire al più presto, possibilmente indenne, da esperienze che chiedevano solo l’adattamento ad un mondo in cui tutto era già stato deciso per te e tu dovevi semplicemente adattarti, ottemperare. Tu, minuscolo nessuno, di fronte al mastodontico ed organizzato edificio di una lingua superegoica di cui la grammatica è lo strumento principe.
Certo, la lingua è fatta di regole (il/lo/la/i/gli/le…, di accordi tra parti che costruiscono quel meraviglioso balletto che è il parlare e lo scrivere, quelle regole grazie alle quali è possibile capirci) ma a queste ci si può avvicinare con desiderio, curiosità, disponibilità a sbagliare.
La scuola primaria dovrebbe rappresentare un’esperienza “con la rete”, un momento in cui è possibile sbagliare e provare a capire le ragioni dei propri errori, senza paura di punizioni, ma con il desiderio di addentrarci sempre più profondamente in questo mondo di regolarità, invenzioni, scopi, contesti…
Come si trasmette l’amore e il gusto per la manipolazione e la riflessione sulla lingua? Come si accompagnano i bambini in quest’avventura?
Come far diventare lo studio della lingua “un oggetto di valore” come lo chiamerebbe Algirdas Julien Greimas, qualcosa per cui vale la pena mettere in moto le nostre ipotesi interpretative e le nostre migliori risorse?
Tutto questo chiede una profonda conoscenza delle problematiche teoriche di questo campo, una conoscenza delle dinamiche cognitive (di cui il costruttivismo ci fornisce un’interessantissima analisi), un dominio della didattica come strumento professionale di traduzioni di contenuti cognitivi in contenuti d’apprendimento, una passione per le meraviglie linguistiche e semiologiche che costruiscono la nostra appartenenza ad un consesso umano.
Ci si lamenta del fatto che gli studenti che arrivano all’università fanno errori “appena tollerabili in terza elementare”.
Ci si è chiesti da quale tipo di scuola provengono questi ragazzi?
È la scuola dove si avviano gli alunni alla lettura di una molteplicità di testi (brevi, lunghi, con figure e senza, d’avventure, scientifici, comici, fiabeschi, gialli…) o è quella delle poche pagine dei libri di lettura? è quella delle schede (anche ortografiche) o del confronto con testi letterari di valore, con documenti nati in contesti diversi, per scopi diversi?
È la scuola della “dissipazione” in estenuanti pagine di classificazioni di articoli, nomi, verbi o è quella in cui si ragiona sul funzionamento della lingua e i bambini si appassionano ai meccanismi che dirigono le nostre scelte linguistiche e comunicative?
I ragazzi che, diventati adulti sono rimasti refrattari all’incanto della lingua e del suo funzionamento sono proprio quelli che si sono estenuati in esercizi applicativi di regole di cui non hanno capito il senso e l’importanza per la propria vita.
Una volta, tanti anni fa, un mio alunno, durante una discussione su alcune forme linguistiche, aveva chiesto ai compagni: ”Scusate, perché si dice “io parlo di me e non io parlo di io?”. Avrei potuto rispondere con una bella definizione: “Perché nel primo caso “io” è soggetto e, nel secondo, è complemento”. E così avrei ucciso un desiderio, nato da una curiosità per il funzionamento della lingua. Qual è stata la risposta? “Proviamo a vedere come funziona in altri casi”. Non c’è stato bisogno di dire: ”Prendete il quaderno e scrivete: i pronomi personali sono…”. È partita una ricerca frenetica per verificare altre situazioni, finché un gruppetto, felice e con le guancine rosse per l’emozione, ha detto: “Maestra non funziona sempre così perché quando diciamo “ noi parliamo di noi” quella paroletta non cambia”. Curiosi, attenti, rigorosi e appassionati, felici di capire che erano in grado di formulare osservazioni sul funzionamento di quelle minuscole particelle. I pronomi personali non avevano più segreti e, se un certo Lacan o Recalcati li avessero sentiti avrebbero pensato che quei piccolini avevano scoperto niente meno che il segreto della soggettività individuale che, dalla fase dello specchio in poi, ci porta a parlare di noi come oggetti esterni. Quando Io parla di “Io”, si tratta come un oggetto “altro” e ha bisogno di una forma speciale perché questo risponde ad un bisogno profondo. Solo ad un’altra età si potranno dare nomi di soggetti, complementi … e classificare qualcosa che si è già conosciuto profondamente ed a cui ci si è appassionati.
Quante sono in Italia le classi, i cui insegnanti sono stati aiutati da un buon percorso di formazione ed aggiornamento a fare un serio lavoro di manipolazione e riflessione sulla lingua? Quegli alunni che hanno passato la loro esperienza nella scuola primaria riempiendo pagine di classificazioni grammaticali, leggendo le poche pagine del libro di lettura, sono proprio quegli stessi che non hanno fatto altro che grammatica, una grammatica scollegata dalla propria vita, una grammatica che t’ignora come essere capace di formulare giudizi, una grammatica che non ti chiede di essere amata e desiderata, ma di essere obbedita.
Dice Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, nella sua lettera sul “ritorno alla grammatica”: “… tutto dipende da come si conduce questo studio. Insegnare “grammatica” (userò questo termine generico e riassuntivo, che in realtà racchiude molti filoni d’analisi e riflessione linguistica) risulta per lo più gravoso e, diciamolo, spesso infruttuoso. … Insomma, le difficoltà e gli insuccessi di questo insegnamento nascono il più delle volte dalla superficialità ed empiricità di molte definizioni, che non spiegano affatto i meccanismi della lingua e tanto meno raggiungono il piano degli atteggiamenti e moventi dell’individuo pensante e comunicante”. Raccomanda, inoltre, di “Non correre avanti verso le analisi della struttura della lingua che vanno avviate in termini approssimativi non con criteri predeterminati, principi e metodi, tipici degli studi posteriori”.
Non basta quindi l’ipersemplificazione di un ritorno al bel tempo che fu, di un mai abbandonato studio della grammatica. Occorre tirarsi su le maniche, leggere attentamente i mille stimoli contenuti nelle Indicazioni nazionali.
Stupisce che personaggi come Massimo Cacciari, che di complessità dovrebbe intendersi, e di altri accademici più o meno titolati a parlare dell’argomento, si siano abbandonati ad una lamentela che, pur comprensibile per quanto riguarda gli effetti, non tiene in nessun conto la realtà dello studio della grammatica classificatoria che continua ad essere fatto nella maggior parte delle classi e propone soluzioni che sono una delle cause del problema.
Speriamo in un ripensamento e, comunque, nell’apertura di un serio dibattito sull’argomento che merita tutta la nostra attenzione. Spiacerebbe dover raccogliere in un unico fascio personaggi come Cacciari e la Tamaro. Ora come ora, entrambi hanno proposto un ritorno al passato. Forse che tutti gli studi di linguistica, semiologia, sintattica, semantica, pragmatica, narratologia… sono passati invano?