paese0In anteprima sull’uscita del Foglio de Il Paese delle donne dedicato al progetto 1946: il voto delle donne, dopo altri  contributi (V. M. Salomon, M. Rodano, R. Pesenti), pubblichiamo quello a Maria Chiaia.

VOTODONNEQuale è stato il percorso politico che ha condotto l’Italia al voto delle donne?

Erano quelli gli anni in cui ci si voleva liberare dalla dittatura del Fascismo, un regime che aveva abolito tutte le libertà e considerava la donna essenzialmente come madre di figli da allevare. Il Centro Italiano Femminile (Cif) come progetto sorse nell’autunno del ’44 e iniziò la sua attività nei primi mesi del ’45, anno in cui già si aveva un elenco di tutte le province italiane dove il Cif era presente con una rappresentanza.

Il movimento nacque per contribuire alla rinascita dell’Italia. Era necessario infatti l’apporto delle donne per ricostruire un paese con reduci che tornavano dalla guerra, bambini per la strada e scuole requisite, un clima di diffusa immoralità. Fu la prima presidente del Cif, Maria Federici, a commentare: «quando vidi nelle sale parto delle bambine di 12 anni che dovevano a loro volta avere dei bambini, mi sono resa conto che c’era da rimboccarsi le maniche per salvare questa gioventù».

Nell’ottobre del ’45, papa Pio XII invitò le donne cattoliche a recarsi al voto perché «l’Italia si fondasse su saldi principi, religiosi e civili», ammettendo che le donne uscissero di casa per abbracciare un impegno civile e politico e affermando l’uguaglianza tra donne e uomini in materia di lavoro. Tutto questo portò alla mobilitazione delle 26 associazioni femminili cattoliche federate nel Cif.

All’epoca delle prime elezioni, nel ’46, io ero una studentessa liceale. Sono approdata al Cif come aderente della Gioventù femminile di Azione Cattolica che ne faceva parte. Nel ’48 ho partecipato, da studentessa universitaria, alla campagna elettorale per le prime elezioni politiche (quelle in cui gli elettori votarono per la prima legislatura del nostro Parlamento); veniva infatti affidato ai membri delle associazioni il compito di presentare, casa per casa, i partiti politici e informare le donne dei loro diritti. Le mettevamo in guardia, dicendo che bisognava informarsi e non votare a occhi chiusi, per tenersi lontane sia dal Fascismo che dal Comunismo, quindi da ogni progetto che portasse alla dittatura. Si andava due a due a bussare alle porte delle abitazioni, senza sapere chi poteva venir fuori una volta bussato… Aprivano gli uomini e ci ascoltavano poco, erano indifferenti, non avevano pazienza, mentre le donne si sentivano comprese e coinvolte dalla nostra passione. Ci invitavano a entrare, si chiedevano perché noi giovani ci interessassimo tanto alla questione, e capivano che ne valeva la pena. Così organizzavamo comizi, distribuivamo opuscoli, ci davamo degli appuntamenti. Avevamo creato una rete, preparando le donne che si recavano al voto con la consapevolezza che si trattava di una svolta storica, che il loro ruolo non poteva più rimanere legato esclusivamente alla funzione materna. Si aprivano prospettive di eguaglianza con l’uomo sul piano culturale, economico e su quello della partecipazione sociale e politica. Abbiamo convinto le donne che il voto era un’opportunità per riscattarsi da una condizione di soggezione.

 

Il giorno del voto: qual era lo stato d’animo delle donne?

Di quel giorno del ’46 ricordo soprattutto l’orgoglio con cui mia madre uscì assieme a mio padre per recarsi a dare il suo primo voto: era certamente un riconoscimento e una conquista. Eravamo a Bari e sembrava che si festeggiasse una vittoria. La città era in festa: per le strade un diffuso vociare di chi si recava alle urne, uno strombettare, uno scorrazzare di macchine per accompagnare ai seggi elettorali le persone bisognose di assistenza. L’affluenza, nel capoluogo pugliese come del resto in tutta Italia, fu molto buona e in proporzione l’elettorato femminile fu più elevato. Possiamo dire che la Repubblica è stata una vittoria delle donne.

Ricordo che, soprattutto al sud, nei piccoli centri si sentiva di donne che venivano minacciate dagli uomini di casa che non ammettevano che le donne esercitassero in maniera autonoma il diritto di voto: si pensava quasi che si trattasse di ‘una bomba atomica’ se le donne avessero potuto agire indipendentemente dalla volontà dei mariti. Il suocero di mia nipote mi raccontava che, in Abruzzo, aveva visto uomini stracciare i certificati elettorali delle mogli. Si temeva che l’elettorato femminile, condizionato dalla religione, esprimesse la sua preferenza verso la Dc e non verso il Fronte popolare che difendeva i diritti dei contadini.

In casa mia la scelta del voto era guidata da sentimenti antifascisti. Mio padre infatti durante il Fascismo era stato discriminato perché non aveva la tessera: aveva perso il posto di insegnante di pediatria nelle scuole superiori femminili. Lui era un attento lettore di giornali, con un’ottima cultura politica ed era positivamente meravigliato che io avessi l’ardire e mi impegnassi tanto nel fare propaganda politica. In questo sono stata molto aiutata dalla mia famiglia, che non era legata a nessuna forma di dipendenza ideologica.

 

Cosa accadde dopo la proclamazione dei risultati?

Nel ’46 la Dc ottenne più del 35% dei voti, però Pio XII temeva che nel ’48, alle prime elezioni per il Parlamento italiano, quel 35% si sarebbe rivelato insufficiente ad assicurare una ‘governabilità fondata sui principi cristiani’ e quindi appoggiò il progetto dei comitati civici di Luigi Gedda che contrastava in maniera radicale il Fronte popolare ma non la destra: un indirizzo rischioso per la democrazia, perché spingeva la Dc a fare fronte unico con la destra contro i socialcomunisti. L’orientamento dei Comitati civici non fu ben visto da molti cattolici, in particolare dall’Azione Cattolica, per i rischi di compromessi con la destra. Io stessa ero fermamente contraria.

Anni dopo, nel ’52, in vista delle elezioni amministrative nel comune di Roma, il Vaticano chiese a De Gasperi di fare alleanza con il Movimento Sociale per sconfiggere i comunisti, con la famosa ‘operazione Sturzo’. Allora accadde un fatto straordinario, ma ignorato dalla storia: tre donne, dirigenti di tre associazioni federate nel Cif – Alda Miceli, Carmela Rossi, Maria Badaloni -, chiesero al ministro degli Interni che questa alleanza non si realizzasse, perché le donne cattoliche potevano assicurare Roma alla Dc. Quando Pio XII venne a conoscenza del fatto, convocò quelle donne per rimproverarle aspramente, ma esse seppero mantenere la parola e si impegnarono per ottenere la vittoria della Dc senza il Movimento Sociale. Non ci fu una supina confluenza da parte del Cif verso la Democrazia Cristiana, ma si trattò di una scelta sempre motivata che non contrastava la pluralità delle opzioni politiche.

 

Le Italiane sono state protagoniste di grandi battaglie dal ’46 agli anni ’80, eppure ancora non si riesce a scalfire il famigerato ‘tetto di cristallo’… 

Sono stati fatti molti passi avanti e sono ottimista per il futuro, sebbene le donne non abbiano ancora superato la privatezza e restino lontane dai centri di potere. I diritti di cittadinanza, ad oggi, non sono uguali per tutti. Il fatto stesso di prevedere le cosiddette quote rosa rivela la debolezza delle donne, pur consentendone la visibilità. Le donne continuano a rappresentare il legame perenne verso il futuro, verso le nuove generazioni, possono coltivare quella libertà di pensiero, quella trasgressività capace di costruire e potenziare il mondo delle relazioni e della convivenza, rivendicando le potenzialità di un’iniziativa nel pubblico, che pare sempre più richiedere il talento femminile.

 

Sembra che le nate di queste nuove generazioni non percepiscano le ingiustizie sociali come una privazione dei propri diritti. Cosa ne pensa e cosa suggerirebbe alle giovani di oggi, a 70 anni dal voto?

Le giovani di oggi devono guardare al futuro e non fermarsi al presente, che pur le compensa in teoria sul piano dei diritti. Devono prendere coscienza del cammino incompiuto e mettere in atto le proprie potenzialità non solo per competere con l’uomo sul piano del lavoro e della vita sociale e politica, ma per incidere profondamente sul piano culturale e affrancarsi da forme subdole di subalternità, rivendicando e riconoscendo quelle risorse che le rendono, nella differenza, uguali all’uomo. Resta aperto un fronte educativo che deve trovare le strade per raggiungere le giovani generazioni, affrancandole da quella miopia culturale che le appiattisce sul presente e che è il risvolto negativo dei social media, pur così essenziali nel nostro tempo.

In questo l’associazionismo femminile può avere ancora il suo ruolo e tentare nuove strade per attingere dalle origini un nuovo impulso per contrastare la crisi di democrazia.