Jessie, miss Uragano
In questo momento in cui le spinte sovraniste e nazionaliste in politica tentano di tacitare e di prevalere sull’unità dell’Italia e dell’Europa, desideriamo ricordare alcune donne che durante il Risorgimento si sono battute per i principi della libertà e dell’uguaglianza, ascoltando le loro appassionate testimonianze.
Cominciamo da Miss Uragano al secolo Jessie White.
Non è questa l’Italia che sognavo. Non è questa l’Italia per la quale ho lottato. No, non è questa….
Intendiamoci io amo questo paese, ma vedo i suoi enormi problemi irrisolti. Manca una classe politica all’altezza del compito, manca una vera educazione nazionale, e siamo ancora lontani dal pieno riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali per tutti. Eppure sono passati già trentacinque anni dall’unità.
La colpa è del parlamento che non vara nessuna legge che riguardi i problemi concreti dei cittadini e i cittadini dal canto loro non riescono ad avere fiducia gli uni negli altri per seguire un interesse collettivo.
“E’ triste realizzare dopo trentacinque anni di vita nazionale che queste due parole: crimine e miseria, riassumono la storia d’Italia”. Ecco, scriverò proprio così nel mio prossimo articolo sul Nation. Sembrerà cinico? Troppo duro? Non sono mai stata tenera in vita mia. E ho sempre amato la verità prima di tutto.
D’altra parte l’ho detto chiaro e tondo anche a Crispi. Che offesa quel sussidio, così striminzito per giunta! Quando è arrivato il funzionario statale: “E’ lei Jessie White, vedova Mario? “… “Sì, sono io. Di che si tratta? Non voglio elemosine. Rimandate quest’incartamento a Roma, o gli dò fuoco!” Si è precipitato giù dalle scale tutto impaurito. Miss Uragano spaventa ancora…
Quello che ho fatto l’ho fatto perché credevo nella causa, non per ricavarne dei soldi! E credevo negli uomini che lottavano per l’Italia, a cominciare da Mazzini. A proposito fu Mazzini a darmi quel nomignolo di Miss Uragano che poi mi è rimasto appiccicato addosso per tanti anni….
Caro il mio funzionario, riferisca che preferisco guadagnarmi il pane insegnando inglese alle mie ragazze. Sono diligenti e buone. Mi piacciono! E mi piace stare a Firenze: la città è garbata e sempre così bella. Certo non sto più a Bellosguardo come ai tempi felici con Alberto… Questa casa è piccola, ma non ci bado.
Di politica non mi occupo più, potete stare tranquilli, non voglio più saperne, non apprezzo i traffici dei commendatori e dei droghieri soddisfatti o, per dirla con il Carducci, dei gufi e dei pecoroni!
Anche Garibaldi è morto triste e deluso, nell’abbandono delle istituzioni. Non è più tempo di eroi questo, è tempo di ingratitudine!
Non è questa l’Italia che sognavo.
Mi consola lavorare ai miei libri e spero che rimangano dopo di me, a cominciare da quelli dedicati proprio a Garibaldi e poi “Carlo Cattaneo, cenni e reminiscenze”, sì, Cattaneo non deve esser dimenticato, è il più grande filosofo ed economista dell’Italia moderna. E poi devo ancora finire di ordinare tutti gli scritti di mio marito, Alberto Mario. Carducci mi ha promesso di curarne l’edizione e di scrivere la prefazione, ma è così indaffarato il professore che chissà… io intanto sto preparando la biografia.
E’ faticoso scrivere perché le mie mani, invece di rispondere ai comandi del cervello, rispondono più volentieri a quelli dell’artrite… Ma è bello lavorare alla biografia di Alberto perché così rivivo il nostro passato insieme…. Genova. 1857. E’ lì e allora che ci siamo conosciuti, e fu proprio il Maestro a mandarmelo a casa con un biglietto di presentazione: “E’ un patriota coraggioso e un letterato, vi piacerà, cara Jessie…” (o cara Bianca? Non ricordo più come scrisse. Di solito Mazzini mi chiamava Bianca – white, bianca – e io allora mi divertivo a chiamarlo Pippo.) Alberto mi piacque eccome! Alto, biondo, bello, appassionato… subito tra noi si stabilì una grande armonia, nelle nostre differenze, lui amava la poesia e stava curando la pubblicazione dei versi di Aleardo Aleardi, io detestavo quei versi gonfi e lacrimosi, e invece mi interessavo di medicina e il mio sogno era assistere i chirurghi sui campi di battaglia. Tutti e due eravamo conquistati dal progetto di Pisacane – “L’Italia meridionale libera dai Borboni, restituita all’Italia tutta, unita e repubblicana!” – Nessuno credeva che fosse realizzabile, neppure Garibaldi. Solo Mazzini, puro idealista: “Vedrete, basterà una scintilla e le popolazioni si solleveranno! La rivoluzione sociale deve precedere quella politica! Non è possibile che l’Italia si unisca sotto la guida di casa Savoia!”
Alberto ed io eravamo convinti, infervorati, fiduciosi. Il 25 giugno Pisacane si imbarca sul Cagliari con pochi altri, in mare aperto prenderanno il comando della nave per dirottarla sulla costa napoletana. Intanto Mazzini passa la notte a limare il discorso con cui arringherà le folle. Io rimango a Genova, depositaria di una memoria, una sorta di Testamento politico, da diffondere in Italia e in Inghilterra, mentre Alberto si prepara ad assaltare una postazione militare. Proprio quella notte Alberto mi dichiarò il suo amore e io gli promisi che sarei stata sua, se fossimo sopravvissuti. Ma qualcuno informò le autorità e l’impresa fallì rovinosamente. Mi arrestarono come “sovversiva delle istituzioni monarchiche” e fui rinchiusa nel carcere di Sant’Andrea. Il conte di Cavour in persona scrisse all’ambasciatore inglese: “Mi spiace che tra le persone più compromesse si trovi un’inglese, Miss White. Sembra fuor di dubbio che ella abbia svolto un ruolo importante e che si sia adoprata con tutti i mezzi per spingere alla lotta…” Ma la cosa più tragica fu l’indifferenza del sud, l’insurrezione mancata e l’uccisione di Pisacane…. Lo piansi in carcere. Di lì a poco seppi che avevano arrestato anche Alberto, ci separavano muri e grate di ferro, ma noi riuscimmo ad abbatterle. Con la complicità di un guardiano, ogni giorno lettere intense e appassionate volavano dall’uno all’altro. Il nostro fidanzamento si svolse in carcere.
Per fortuna dopo pochi mesi ci siamo ritrovati liberi entrambi. Io ero stata giudicata “una giovane evidentemente invasa da un’esaltazione mentale per la causa italiana, e dunque indesiderata”. Mi dettero cinque giorni per riparare all’estero. Decisi per l’Inghilterra, la mia famiglia e Mazzini mi reclamavano, e Alberto scelse di venire con me. Fu così che in un freddo dicembre, dopo appena sei mesi dal nostro primo incontro, Alberto ed io ci sposammo.
Mazzini non la prese bene e questo mi fece letteralmente infuriare. Ma come!? Ero finita perfino in carcere per averlo seguito…. E lui non viene neppure al mio matrimonio.
Forse era geloso, mi considerava un po’ come una figlia, o forse temeva che il passo fosse troppo affrettato. D’altra parte….“La vita senza entusiasmo è un fiore senza profumo!” Come disse Alberto uno dei primi giorni del nostro amore, probabilmente per giustificare il mio carattere irruente e la mia ansia di agire.
Comunque Pippo mi mandò una lettera affettuosa, ma con una piccola raccomandazione: “Promettete di non fare del matrimonio un egoismo a due.” E subito mi reclamava a sé per un giro di conferenze… Credo che quella sia stata l’unica volta in cui non gli ho obbedito.
Dopo un po’ di tempo, ogni dissidio fu dimenticato e ci trasferimmo a Londra, proprio in un appartamentino a pochi passi da casa sua, perché frequentare Mazzini voleva dire stare con la famiglia allargata degli esuli di tutto il mondo, pensare in grande, vedere lontano…
Quando, quindici anni più tardi, Mazzini morrà, la salma fu imbalsamata perché il corpo diventasse “un monumento” per i posteri. Una specie di reliquia laica da contrapporre a quelle dalla Chiesa. Mah… io credo che lui avrebbe preferito riposare vicino a sua madre, in silenzio, senza enfasi né retorica. Perché era fatto così: ascetico e disinteressato, innamorato solo della cultura e dei suoi ideali.
Per questo credo di non averlo capito fino in fondo allora, ero troppo giovane, impulsiva, votata all’azione. In questo molto più simile a Garibaldi che a Mazzini. Beh, intendiamoci, non rimpiango tutte le conferenze, su e giù per l’Inghilterra e perfino negli Stati Uniti d’America, né gli articoli che ho scritto, sono stati il mio orgoglio e un impegno senza dubbio utile alla causa, ma la mia vera passione era curare i feriti sui campi di battaglia. E questo sogno si è avverato in Sicilia, a fianco di Garibaldi, nel 1860.
Garibaldi era stato il mio primo “amore”, fin da quando, ragazzina avventurosa e romantica, lo conobbi a Nizza. Lui era già una leggenda, e io, che tanto avevo sentito e letto delle sue imprese, degli amori, i dolori e le persecuzioni, lo avevo idealizzato. Lì per lì mi deluse, mi sembrò un vecchio, tormentato dai reumatismi, dedito alla pesca piuttosto che alla spada… ma poi bastò uno sguardo, qualche parola e capii che sotto la cenere ardevano le braci e il leone stava raccogliendo le forze per prepararsi al balzo. In quel momento per me la causa italiana e Garibaldi si identificarono e mi votai a loro per la vita.
Finalmente, dopo tanti anni, Garibaldi si era ricordato di me e mi aveva chiamato insieme ad Alberto per partecipare all’impresa dei Mille. Impresa temeraria, dopo i sacrifici dei fratelli Bandiera, di Pisacane e degli altri…. ma se c’era qualcuno che poteva metter fine all’arretratezza, alla miseria, all’ingiustizia e ai soprusi del governo borbonico, questi era Garibaldi e nessun altro. Con l’entusiasmo di sempre rispondemmo all’appello.
Dalla Svizzera non fu semplice raggiungere Quarto, insomma quando arrivammo i garibaldini erano già partiti. Ci siamo imbarcati su due piroscafi diversi, per non dare nell’occhio, perché eravamo ancora nella lista nera del governo sabaudo. Il mio viaggio fu lungo e faticoso, ma non appena sbarcai in Sicilia, proprio mentre stavo dirigendomi su Alcamo, ecco mi si para davanti Garibaldi in persona, ardito e sorridente, circondato dall’aura festosa del trionfatore.
Palermo era già sua!
Il calore della sua presenza mi avvolse liberandomi da dubbi e stanchezza, le sue parole mi sorpresero per generosità e ironia: “Ho provveduto per voi molti feriti da curare….” Ma come? Si ricordava la mia promessa giovanile: “Sarò l’infermiera dei vostri volontari!” Ecco, adesso era giunto il momento. Mi gettai nell’impresa con l’impeto che ci si poteva aspettare da Miss Uragano e spesso il coraggio supplì all’inesperienza, ma avevo una buona guida, Pietro Ripari, il medico in camicia rossa, scontroso e buono, di poche parole e molti fatti, proprio come il suo Generale! Feci di tutto, dal curare le ferite a consolare gli animi a scrivere lettere per le famiglie lontane a rubacchiare un po’ di cibo in una Palermo devastata dove mancava tutto… Arrivai perfino a medicare i malati di vaiolo nero e quando Alberto lo venne a sapere inorridì. Povero amore! Mi confessò più tardi che se fossi rimasta sfigurata dal vaiolo non era tanto sicuro di riuscire ad amarmi come prima.
Alberto si occupava di addestrare i ragazzi poveri e abbandonati nella nuova scuola militare voluta da Garibaldi. Il mio Ospedale era in un vecchio monastero non troppo distante. Insomma capitava a volte di mangiare e dormire insieme, quando c’era tempo per mangiare e per dormire….Sono stati giorni bellissimi. Poi l’esercito garibaldino mosse alla conquista di tutta l’isola e quindi dello stivale. Alberto mi salutò di nuovo. A me toccava restare nelle retrovie, mi giungevano notizie di vittorie, ma vedevo solo morti e moribondi e feriti, quanto sangue! Credo di essere stata utile davvero, perché gli uomini che ho curato mi regalarono questa medaglietta. Un piccolo tesoro. Da una parte c’è il profilo della Sicilia e dall’altra un’iscrizione: Alla signora Mario, dai feriti di Garibaldi.
Ritrovai Alberto a Palmi, in Calabria e poi entrai con lui a Napoli. Che trionfo, in soli cinque mesi! Ricordo l’eccitazione, la festa…. ma anche un lieve contrattempo. Al quartier generale di Garibaldi arriva la notizia che i Borboni hanno ripreso il possesso di Ischia. Forse è solo una voce ma bisogna andare a verificare e Garibaldi incarica Alberto del sopralluogo. Io avevo un attimo di quiete e decido all’istante: “Vengo con te!” E il giorno dopo eccoci sull’isola a dorso di asino. In vista di una cittadina, una folla ci viene incontro correndo e gridando, sono i ribelli? I borbonici? No, sono i cittadini di Forio che vogliono abbracciarci e benedirci. Gli uomini con fasce tricolori, le fanciulle in bianco e nastri nei capelli, lanciano fiori, esplodono mortaretti, ghirlande alle finestre. Nemmeno uno parteggia per i Borboni, tutti acclamano Garibaldi! E chi è Garibaldi? Alberto. Anch’egli biondo, barbuto e con la camicia rossa. Ma molto più giovane e più bello, aggiungo io. Non c’è niente da fare, per quanto si cerchi di spiegare l’equivoco, nessuno si convince. Garibaldi è arrivato ad Ischia a dorso di un asino, seguito da una donna dai capelli rossi, bello biondo e sorridente per distribuire a tutti libertà e maccheroni!