La battaglia del velo
Correva l’anno 2003 quando l’editore Gallimard diede alle stampe ‘’Bas les voiles’’della giovane esule iraniana a Parigi Chahdortt Djavann. Il saggio spiegava in maniera chiara ed esauriente il significato del velo islamico altrimenti detto hijab.
L’etimologia della parola ci aiuta a capirne il significato dandoci la chiave interpretativa. Hijab viene dalla radice araba h-i-b e significa letteralmente rendere invisibile allo sguardo, nascondere. Che cosa e perché nascondere? La donna. I benpensanti dicono proteggere. Occorre tenerla al riparo dallo sguardo maschile perché fin dall’infanzia suscita il desiderio, anzi lo crea. Questa è la sua colpa. I corpi femminili sono colpevoli perché sono fonte di inquietudine, angoscianti, sporchi, impuri, possono trasmettere malattie e sono sorgenti di peccato. In altri termini questi corpi desiderati e proibiti, dissimulati o esposti sono una minaccia, possono circolare tra gli uomini solo come ombre.
Il corpo femminile in sé è tabù, a partire da quello della madre desiderata e insieme interdetta. Il velo, abolendo la promiscuità, materializza la separazione radicale tra lo spazio pubblico che appartiene agli uomini e lo spazio privato riservato alle donne. Salva – per così dire – l’uomo dai suoi stessi inconfessabili desideri.
Il velo deve nascondere la macchia originaria: essere nata donna. Non essere come l’uomo rende la donna mancante, inferiore. Il velo in tutte le sue incredibili varietà (chador, burqa, hijab, niqab) condanna la donna a essere incarcerata per salvare l’onore maschile che si radica nel corpo delle ‘sue’ donne (madri, sorelle, mogli, figlie). Il corpo delle donne va protetto dagli sguardi rapaci degli altri maschi: è in gioco l’identità del maschio, la cui virilità consiste proprio nel controllo delle ‘sue’ donne. Wassyla Tamzali -avvocata algerina femminista – ha sempre detto che la donna velata nello spazio pubblico rende esplicita all’esterno e materializza la logica dell’harem.
Fatiha Agag-Boudjahlat ribadisce nel suo bel libro ‘Le grand detournement ‘appena pubblicato gli stessi concetti espressi da Tamzali e Djavann. Il velo non mette comunque al riparo dalle aggressioni: stupri, prostituzione e pedofilia sono largamente diffusi anche nel mondo islamico. In ogni caso non si può assumere il velo come simbolo di libertà adducendo le proprie convinzioni religiose o le rivendicazioni identitarie degli indigenisti o ancora peggio affermare che esprime la protesta contro la politica occidentale.
Non si può essere dalla parte delle donne iraniane che lottano e rischiano di morire in quanto contrarie all’obbligo del velo e contemporaneamente sostenere qui da noi le tesi degli indigenisti. O peggio ancora fare propaganda al velo come segno di libertà (vedi la pubblicità del Consiglio d’Europa in tema di istruzione). Mentre in Iran decine di donne muoiono per liberarsi dal velo il nostro Consiglio d’Europa promuoveva l’hijabcome simbolo di libertà: “La beauté est dans la diversité, comme la liberté est dans l’hijab”. Con tutta la buona volontà del mondo non si può cambiare di segno a quello che rimane il simbolo materiale dell’alienazione psichica dell’uomo, che fonda il suo onore sul controllo dei corpi delle donne di famiglia, considerate proprietà personali e della complicità/sottomissione della donna. ’’Velarsi significa – che si sia o no consapevoli- concepirsi come oggetti sessuali destinati agli uomini a cui si riconosce il diritto di disporre dei nostri corpi’’
PS. A Justin Trudeau che ha istituito la W.H.D. Giornata mondiale del velo islamico attribuirei un bel Ig-Nobel per la lungimiranza; a Susan Moller Okin la nostra gratitudine per averci messo in guardia contro il multiculturalismo che fa prevalere i diritti delle comunità a discapito dei diritti individuali della donna.