LA COLONIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO – Una conversazione con Helena Norberg Hodge, a cura di Gloria Germani
Come il medico spesso cura il singolo sintomo senza prestare attenzione al paziente nella sua totalità, così i governi attuali, di qualsiasi colore siano, tentano di salvare l’economia senza tener presente che essa è parte di qualcosa di più vasto e complesso. È il pensiero che sorge spontaneo dopo aver visto L’economia della felicità: prodotto e diretto da Helena Norberg-Hodge, questo documentario fornisce un’acuta analisi della crisi economica, ambientale ed esistenziale, indicando soluzioni concrete e lungimiranti. L’economia della felicità ha vinto numerosi premi e gli è stato attribuito il primo posto nella classifica internazionale dei “100 documentari che cambiano il mondo”. Helena Norberg Hodge si occupa di questione ambientali da anni ed è analista economica nota in tutto il mondo, già vincitrice del Premio Nobel Alternativo nel 1986.
L’anno scorso ha partecipato alla Riunione plenaria della Nazioni Unite dal titolo “Felicità e Benessere: per definire un nuovo paradigma economico”, e il 2 ottobre 2016 Helena aprirà i lavori della VIII Convegno e raduno Internazionale L’Economia della Felicità (di cui Comune è media partner), a Firenze al Teatri Verdi. Insieme a Serge Latouche, al fondatore delle transition town Rob Hopkins e molti altri e altre, Helena è uno dei punti di riferimento dei movimenti della decrescita. In questa conversazione Helena ragiona, tra l’altro, di critica allo sviluppo, di localizzazione, di intercultura e del bisogno di gruppi di ricerca e azione indipendenti e autonomi.
Helena, il tuo film L’economia della felicità parla non di una sola “scomoda verità” come fece Al Gore nel 2007, ma di otto scomode verità relative alla globalizzazione. In Italia tendiamo a confondere globalizzazione con evoluzione, ma la tua analisi scardina questa idea. Puoi spiegarcela?
La persuasione che la globalizzazione sia una evoluzione della storia dell’uomo non è nient’altro che una fede o un mito. Altri ritengono che gli effetti negativi della globalizzazione siano causati dal capitalismo o dal turbo capitalismo. Ma noi ci distanziamo dalla critica convenzionale al capitalismo espressa dalla sinistra. Le critiche di sinistra al capitalismo non riescono ad afferrare le basi ecologiche e psicologiche del problema.
L’ottava scomoda verità descritta nel tuo film rivela che la globalizzazione è basata su una falsa spiegazione. Questa falsa spiegazione è la crescita. È lo stesso concetto che Latouche chiama “colonizzazione dell’immaginario”?
La falsa spiegazione è iniziata ignorando la realtà dell’economia di sussistenza, come quella del Ladakh o del Bhutan. Popolazioni che hanno abitazioni confortevoli, cibo e vestiario e che accumulano ricchezza nella forma di gioielli, dipinti e altri manufatti, sono stati considerati più poveri dei poveri: questo perché non sono ancora dipendenti dal mercato globale. Per quelli invece che lo sono già, la ricchezza diviene essenzialmente transazione commerciale. La cosa più assurda è che molte attività distruttive sul piano sociale ed ecologico, come guerra, crimini, deforestazione, sono calcolate come produttive. Anche l’aumento dell’inquinamento, dei rifiuti, delle malattie o dei crimini fanno alzare il Prodotto interno lordo.
Con il concetto di colonizzazione dell’immaginario penso che Latouche si riferisca alla maniera in cui i poveri del Sud globalizzato siano stati fatti sentire arretrati e inferiori. Le loro menti sono state colonizzate e spinte ad aspirare alla moderna cultura urbana consumistica. Quello che rischiano di perdere però – la famiglia allargata, la connessione con la terra, anche la semplice felicità – non appare mai nel foglio di bilancio…
La seconda parte del tuo film è dedicata a una possibile soluzione della crisi globale, rappresentata dalla localizzazione. Localizzazione e decrescita sono la stessa cosa? Puoi parlarci della grande diffusione del movimento della localizzazione e della Conferenza sull’economia della felicità che si è tenuta a Berkely?
Credo che localizzazione e decrescita in gran parte coincidano. Conosco Latouche da molto tempo e abbiamo le stesse idee su tantissimi problemi. Lui considera il movimento per il cibo locale e le transiton town come esempi di decrescita. Io credo che rafforzare o ricostruire le economie locali possa ispirare e mobilitare ancora più persone. Alla Conferenza in California hanno partecipato oltre quindici paesi. È stato molto incoraggiante vedere il moltiplicarsi di iniziative per il cibo locale e alleanze per il commercio e la finanza. Ristabilire l’interdipendenza tra produttore e cittadino consumatore è essenziale per costruire strutture più affidabili ed etiche.
La tua analisi ci dimostra che la crisi economica, ecologica ed esistenziale sono aspetti diversi della stessa crisi. Ci puoi spiegare meglio questo concetto?
Fino al 1975 il Ladakh era rimasto fuori dal sistema capitalistico globale, poi lo sviluppo è arrivato tutto insieme, creando mutamenti strutturali devastanti e destabilizzando il benessere interiore, la salute fisica e le interazioni sociali. Nell’economia locale tradizionale la cultura e l’ambiente non erano modellati dall’economia, ma al contrario era l’economia ad essere modellata su valori spirituali, sociali ed ecologici. Sono stata testimone di come il sistema economico globale, iniettando l’idea di competizione e quella artificiale di scarsità, abbia trasformato le relazioni della gente con se stessa, con gli altri e con la natura.
Qual è la differenza sostanziale tra la specializzazione-frammentazione della cultura moderna e l’interrelazione-connessione tipiche della cultura orientale? Il simbolo della vostra International society for ecology and culture (Isec) non allude proprio a questo?
Il simbolo di Isec è l’antico nodo infinito del Buddismo tibetano, che rappresenta l’inestricabile connessione di tutti i fenomeni e il perenne fluire. Al contrario, la connessione tra una visione del mondo specializzata e frammentata e la dipendenza da grandi istituzioni sono fondamentali per creare quella cecità che alimenta la nostra cultura globale suicida. Oggi nelle aziende e nei governi, i leader sono guidati da concetti astratti e da numeri, e sono spinti unicamente dal “dovere” della crescita. È assolutamente essenziale mostrare che queste assunzioni non sono né giustificate né sane. I governi usano i soldi delle nostre tasse per sovvenzionare banche e corporazioni. Concentrano la ricchezza nella mani di un sistema invisibile, non tracciabile, mentre impoveriscono la maggioranza della popolazione globale e depredano il mondo naturale. Tragicamente, tra i molti milioni di gruppi che stanno cercando di proteggere l’ambiente o che provano a proteggere i poveri e gli svantaggiati, c’è ancora poca attenzione alla vera causa di tutto questo: il sistema economico.
Se vogliamo davvero rifiutare il sistema globale, abbiamo bisogno di una visione globale. A partire da Gandhi in poi, molte delle voci più significative hanno avuto delle esperienza globali e interculturali. Vandana Shiva ha ricevuto un’educazione occidentale, Serge Latouche ha passato molto tempo in Africa e così via. Isec cerca di promuovere una visione “ribaltata” del sistema economico globale. Per sviluppare modi di vita sani abbiamo bisogno di riscoprire sistemi di conoscenza che rispettino l’infinita diversità, complessità e ricchezza del mondo vivente. Allo stesso modo bisogna raggiungere una conoscenza profonda e intima delle persone intorno a noi, il tutto sulla base dell’esperienza e della coesistenza pacifica. L’influenza della grandi multinazionali sul nostro pensiero è talmente forte che sono loro a guidare le statistiche sul fabbisogno energetico del pianeta; per questo abbiamo urgente ed assoluto bisogno di creare dei think tank e gruppi di ricerca indipendenti e autonomi.