La Convenzione di Istanbul va in aula alla Camera
Nel silenzio generale dei media, un parlamento con la più alta percentuale di donne della storia repubblicana sta per votare la ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011.Questo dibattito poteva essere l’occasione per le donne in parlamento di provare ad avviare quella relazione fra rappresentanti e movimento delle donne di cui alcune avevano parlato durante la campagna elettorale. Poteva essere l’occasione, per le donne dell’associazionismo femminile e del femminismo, per chiedere alle donne in Parlamento un confronto su un tema che presenta oggi un’urgenza ancora maggiore rispetto a quando, nel 1996, fu votata la legge contro la violenza sessuale. Non sta succedendo niente, come se questa convenzione e la sua ratifica fossero un evento rituale, un mero adempimento burocratico.
Non è così. Il testo della convenzione contiene almeno un punto in contrasto con la nostra legislazione in materia e ci costringe quindi ad affrontare di nuovo la discussione che quasi 25 anni fa divise profondamente il movimento femminista. Si tratta dell’alternativa fra procedibilità “d’ufficio” e “a querela di parte”. La convenzione prevede la procedibilità d’ufficio obbligatoria per alcune fattispecie: la violenza fisica, quella sessuale (non solo stupro), il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata. La legislazione italiana per la violenza sessuale prevede invece la procedibilità a querela di parte, e questa querela è irrevocabile.
A questa formulazione il Parlamento arrivò nel 1996, dopo che, soprattutto nella legislatura precedente, il dibattito era stato molto articolato, con un ventaglio di alternative possibili.
Una era quella del doppio regime, a cui era particolarmente affezionata la Democrazia Cristiana, che fissava una distinzione fra la famiglia, all’interno della quale la violenza era perseguibile a querela di parte, e la realtà extra-familiare, dove scattava la procedibilità d’ufficio. Questa norma avrebbe dato vita a un vero e proprio mostro giuridico, con le donne lasciate sole di fronte alla violenza domestica e sostenute soltanto di fronte alla violenza agita da estranei.
E’ necessario ricordare che coloro che sostenevano la querela di parte, lo facevano in nome di una libertà femminile data per acquisita da tutte le donne, ritenendo la procedura d’ufficio una forma di tutela statale ingiustificabile. Le altre invece ritenevano necessario che le donne fossero sostenute in un momento, quello della violenza subita, in cui persino quelle più consapevoli e autodeterminate rinunciavano spesso a denunciare, per non subire anche la violenza insita nel procedimento giudiziario.
Tutte comunque respingevano l’ipotesi del doppio regime. Dal dibattito fuori e dentro il parlamento emerse a un certo punto una posizione che a molte parve una mediazione alta: contenuta in un emendamento presentato da Mariella Gramaglia, prevedeva la procedibilità d’ufficio, con la possibilità per la donna di ritirarsi dal procedimento (di fatto una norma speculare a quella che fu poi approvata).
La legislatura 1987-1992 si chiuse con un testo approvato solo dalla Camera che optava per la procedibilità d’ufficio. Qualche anno dopo, senza che nel movimento delle donne si riaprisse il dibattito, la legge veniva approvata da uno schieramento trasversale che scelse la querela di parte, irrevocabile.
E adesso? A me sembra che le ultime storie di femminicidio, che spesso iniziano come storie di ordinaria violenza, ci dovrebbero far pensare. Continuano ad essere troppo poche le donne che denunciano partner violenti o maltrattanti. Sono poche perché spesso alle loro denunce non viene dato ascolto. Potrebbero essere di più se non fossero loro a doversi far carico, nel momento di maggiore debolezza, dell’avvio del procedimento? Non lo so, ma mi piacerebbe parlarne con coloro che hanno in qeusto momento la responsabilità di legiferare.
Possibile che nessuna, dentro o fuori il Parlamento, senta l’esigenza di riprendere il discorso? Almeno a me sembrerebbe necessario.
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