LA DEMOCRAZIA PARITARIA così importante e così amletica – Va sempre bene una donna al potere anche quando è portatrice di una cultura reazionaria e conservatrice? Roberta Carlini e Marcella Corsi rispondono all’interrogativo
Il parlamento eletto il 4 marzo è quello con la più alta percentuale di donne nella storia italiana. E per la prima volta una donna ha assunto la seconda carica dello Stato, con l’elezione di Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato. Ci sarebbe di che brindare, per chi ha sempre considerato la democrazia paritaria una condizione necessaria – sebbene non sufficiente – per la realizzazione dei diritti e della libertà delle donne. Ed è una buona notizia che, di fronte alla difficoltà di formare un nuovo governo per l’assenza di una maggioranza parlamentare netta a favore di uno degli schieramenti in campo, il direttore di uno dei più grandi giornali nazionali – un uomo, come la stragrande maggioranza dei direttori dei giornali nazionali – abbia avanzato la proposta di scegliere per la prima volta nella storia una donna per il governo del paese.
Ma le buone notizie finiscono qui.
L’avanzata femminile nella XVIII legislatura avviene tutta nella destra e nel campo né-destra-né-sinistra del M5S, mentre quelle del centro-sinistra arretrano nella rappresentanza parlamentare e spariscono dalle posizioni apicali. La foto della delegazione del Pd che si reca al Quirinale per le consultazioni – quattro uomini nerovestiti – parla da sé, anche più dei numeri che presto elencheremo. E hanno parlato, infine, anche alcune centinaia di donne di quel partito, con la petizione TowandaDem che, in assenza evidente di sedi del partito, affida a change.org il grido di dolore.
Le donne avanzano nel campo dei vincitori e piangono in quello dei perdenti. Situazione che può sembrare una vecchia conferma (quando ci sono meno posti, sono le prime a essere buttate fuori), ma che invece apre questioni del tutto nuove: l’avanzata delle donne della nuova destra populista (caso che ci accomuna a tutta la destra populista europea, sovranista e xenofoba, e che merita adesso in Italia attenzione analoga a quella che sta ricevendo in paesi come Francia e Germania); la sparizione delle donne nella sinistra o ex-sinistra. Più un dilemma a sé, speciale dell’Italia: il ruolo femminile nell’esperimento né-destra-né-sinistra del firmamento a 5 stelle.
I numeri
Il parlamento più femminile della storia della Repubblica non è, in realtà, tanto femminile. La percentuale record – il 34,6% alla Camera, il 34,7% al Senato – è ancora lontana dalla “meta metà” della rappresentanza istituzionale, che corrisponderebbe alla suddivisione dell’elettorato. Ma è un considerevole passo avanti, rispetto al 30,7 e 28,4% del parlamento eletto nel 2013, e al 20,4 e 17,9% di quello ancora precedente. La legge elettorale prevedeva dei meccanismi per la parità di genere, sia nella scelta dei candidati all’uninominale che nella composizione delle liste per il proporzionale. Meccanismi che però sono stati aggirati, come riassume Openpolis, con il gioco delle pluricandidature, al quale si sono prestate alcune donne con particolare visibilità e potere nei rispettivi partiti; soprattutto nel Pd, che ha eletto il 33,9% di donne arrivando così terzo, dopo il Movimento 5 Stelle (39,4) e Forza Italia (34,9), nella classifica della rappresentanza femminile che vede all’ultimo posto il partito sorto alla sinistra dello stesso Pd, Liberi e Uguali (Leu), con il 27,7% di donne elette.
Passando ai posti di potere, solo un partito, tra quelli che hanno superato le soglie di sbarramento, aveva una donna come candidato premier: Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni. Come nella precedente legislatura, si è rispettata la condizione paritaria tra le due presidenze di Camera e Senato, ma per la prima volta una donna ha conquistato lo scranno di Palazzo Madama, presentata da Forza Italia e votata da centrodestra e M5S. Al momento di eleggere i propri capigruppo, Lega e Pd hanno scelto solo uomini, Forza Italia ha eletto due donne, il M5S una donna e un uomo, così come il piccolo gruppo misto.
Destra
L’avanzata femminile nel nuovo campo del centrodestra ha due facce. Quella già conosciuta, antica e ambigua, del partito-azienda di Forza Italia, che resta a proprietà e dominio personale, da parte dell’uomo che ha incarnato, in Italia e nel mondo, l’uso maschile e maschilista del potere: in azienda, in politica, nei media, nell’intrattenimento. Le donne in Forza Italia ci sono sempre state e hanno sempre fatto carriera, prescelte dal capo come tutti gli altri, a volte mostrando anche capacità di crescita in competenza e professionalità, ma sempre mantenute nei ruoli grazie alla loro fedeltà. Così è per la neopresidente del Senato, che, per dirne una, ha difeso strenuamente la tesi di Ruby “nipote di Mubarak”. È simbolicamente e politicamente interessante che l’anziano capo si affidi alle sue donne in tempi di consenso calante e di fronte al netto sorpasso che ha subìto ad opera dell’alleato Salvini; ma non cambia molto l’immagine né il ruolo tradizionale – né tantomento i contenuti politici – delle donne in quel partito.
Diverso è il caso nel campo populista della destra, Fratelli d’Italia e Lega. La leadership di Giorgia Meloni richiama tutti i caratteri che ha l’ascesa femminile nella destra nazionalista e xenofoba europea. Vi si rintracciano elementi di quello che Francesca Scrinzi ha definito il passaggio da un approccio tradizionale a un approccio tradizional-moderno, parlando di Marine Le Pen e del Front National: nella vita privata (non sposata, ha una figlia, ha condotto la campagna elettorale da candidata sindaca di Roma mentre era in gravidanza: più “madre lavoratrice” che “madre della nazione”, per usare le parole di Scrinzi) e nelle posizioni politiche (difesa dell’italianità che passa anche per una politica pro-natalità, protezione delle donne italiane dalla violenza e dal sessismo degli immigrati, dunque uso delle conquiste femminili occidentali in chiave xenofoba). Ma per tutta la campagna elettorale questi temi, sempre impugnati da Meloni, le sono stati scippati con sempre maggiore successo dal leader della Lega Salvini. Al cui fianco, unica donna presente al comizio di chiusura della campagna elettorale, li ha ribaditi Giulia Buongiorno, avvocata e già parlamentare di Alleanza Nazionale, passata armi e bagagli alla Lega anche in nome della “difesa delle donne”. Anche la Lega, rispetto al machismo e “celodurismo” incarnato dal primo Bossi, ha subìto una evoluzione. Il passaggio dall’essere un partito secessionista incentrato sulla rivolta fiscale del Nord a partito sovranista e di difesa della italianità ha portato a enfatizzare, nei toni e nei programmi, gli stessi temi di Le Pen e Meloni: “prima gli italiani” è anche “prima le italiane”, la protezione e la difesa delle “nostre” donne, da Nord a Sud. La Lega non ha eletto molte donne in parlamento (il 30,8%, meno del Pd) e non ha donne nelle posizioni apicali. Ma, secondo un sondaggio Ixè sui flussi di voto, le donne l’hanno votata più degli uomini. Il che conferma, come in altri paesi europei, che le donne votano a destra in cerca di “pulizia e decoro”, e spesso vedono nelle candidate donne competenze innate a tale scopo (basti pensare al fenomeno Alice Weidel in Germania, alla guida del partito di estrema destra Alternativa per la Germania).
Sinistra
I protagonismo delle donne nell’ascesa del populismi di destra, e le minacce che questi rappresentano per le conquiste materiali e simboliche delle donne, pone urgenze e sfide sull’eredità della rivoluzione femminista del XX secolo, sulla tenuta dei diritti conquistati, sulle risposte da contrapporre. A maggior ragione spicca e inquieta la speculare sparizione delle donne nei partiti degli eredi della sinistra del Novecento. Attenzione: sappiamo benissimo che l’assenza dal campo istituzionale e partitico non è un’assenza dalla politica. E che l’annacquamento, o ‘sbianchettamento’ di presenze femminili può essere conseguenza della stessa strumentalità, di facciata, con la quale erano state inserite. Ma la sparizione è troppo netta e clamorosa per essere sottaciuta o sottovalutata; né può essere volontaria, come testimonia la sia pur tardiva lettera-petizione delle donne del Pd. Può essere essa stessa un segno o una causa, più che una conseguenza, della crisi forse irreversibile di quel partito; ma ha caratterizzato anche gli scissionisti di Leu, che oltre ad avere un risultato elettorale nettamente al di sotto delle speranze ha anche conquistato l’ultimo posto nella classifica della presenza parlamentare femminile.
Nessun tentativo di ricostruzione in questo campo politico e culturale può prescindere dalle donne. A cinquant’anni dal ’68 è tempo di riflettere a fondo su quanto il femminismo sia stato (o non stato) introiettato dai partiti della sinistra italiana, di oggi e di ieri.