La fuga d’amore di Elizabeth Barrett
“La mia storia è semplice come quella di un uccellino in gabbia. La maggior parte delle gioie più intense, degli avvenimenti più importanti della vita li ho vissuti nella mia fantasia. Da bambina scrivevo versi. Quanti hanno scritto versi da bambini e non sono diventati mai poeti!… ma, la mia passione infantile si trasformò in volontà tenace, e la poesia è stata fin d’allora per me come un essere vivente per il quale vivevo, studiavo e pensavo”
L'”uccellino in gabbia” che così ci parla di sé è la poetessa inglese Elizabeth Barrett.
Da bambina sognava più spesso Achille ed Enea che i personaggi delle fate; il suo cavallino nero si chiamava Mosè e lei era esile e piccola, con un visetto pallido incorniciato da riccioli neri illuminato da grandi occhi avidi di sapere.
La “gabbia” era una grande casa brutta, quasi grottesca con cupolini, torrette, finestre a ogiva stile arabo che mettevano una nota stonata nel quieto paesaggio inglese. L’aveva costruita il padre di Elizabeth, un uomo severo, dispotico. Discendeva da una famiglia di piantatori dell’India Occidentale, grandi proprietari di colonie di schiavi. La moglie, una creatura timida schiacciata sotto il giogo dell’autorità maritale, morirà presto lasciando una nidiata di figli: undici tra fratelli e sorelle.
Una vita austera, senza visite di amici, senza allegria. Bisognava far sempre silenzio “per non fare inquietare papà”.
Gli anni passano. Elizabeth è ora una giovane donna che giace in un letto malata.
Surrey 10 gennaio 1845.
Robert Browning: “Io amo, con tutto il cuore, i vostri versi, cara Miss Barrett. E la mia non è una di quelle lettere di complimenti che si scrivono per dovere, né è una banale espressione di lode per il vostro ingegno alla quale poi non si ripensa più”.
Elizabeth Barrett: “Io vi ringrazio, caro Mr. Browning, dal profondo del cuore. Quanta gioia mi avete data! Ricevere una lettera cosi lusinghiera e scritta da voi! Sentire intorno a me della simpatia mi è caro, molto caro. Ma l’espressione di simpatia di un poeta e di un così grande poeta mi è cara al disopra di ogni altra!”
La corrispondenza continua regolare e frequente. Sempre più frequente.
Elizabeth Barrett: “…Quello che mi dite, Mr. Browning, sulla società mondana, m’induce a far dei confronti tra la vostra esistenza e la mia. Voi – mi sembra – avete largamente bevuto alla coppa della vita tutta illuminata dal sole. Io ho vissuto soltanto di vita interiore, o di dolore…. Anche prima che la malattia mi costringesse a questa reclusione, ero sempre una reclusa…. Sono cresciuta in campagna senza avere occasione di andare in società…. Era, la mia, una vita solitaria che inverdiva come inverdiva l’erba tutt’attorno. Vivevo di sogni e di libri, e la vita di famiglia sembrava ronzarmi dolcemente intorno, così come ronzavano le api sulle praterie. E il tempo passava, passava…. E più tardi, quando mi ammalai e sembrò che fossi sull’orlo della tomba, senza speranza di poter mai più varcare la soglia di una stanza (una volta proprio parve così)… allora pensai con un po’ di amarezza, che in questo tempo che stavo per abbandonare avevo vissuto come una cieca, l’umanità mi era ignota; le mie sorelle e i miei fratelli del mondo non erano che nomi per me, non avevo mai contemplato l’alta montagna, né i fiumi… Nulla insomma… Mi comprendete? E comprendete quale difficoltà da superare sia questa ignoranza, per la mia arte?… Non vi sembra che se continuassi a vivere, senza però poter sfuggire a questa prigionia, lavorerei in condizioni di assoluta inferiorità; che io sono, per così dire, un poeta cieco? Ci sono dei compensi, è vero… La vita interiore, l’abitudine di esaminarmi e di analizzarmi mi fanno penetrare a fondo la natura umana. Ma il mio io poeta scambierebbe ben volentieri tutta la cultura presa nei libri – pesante, ingombrante, che non serve a nulla – con qualche, esperienza di vita, di umanità, con qualche… Ma brontolare è una cosa vile. Scrivo così soltanto per spiegarvi cosa intendevo di dire parlando della vita di società… e perché possiate capirmi quando vi dico che le mie più grandi gioie, che quasi tutte quelle che si chiamano emozioni… io le ho vissute soltanto attraverso la poesia…”
Nella sua prima lettera a Robert Browning, Elizabeth, accennando a un loro possibile incontro, scriveva: “A primavera vedremo”.
La primavera è arrivata. Nella camera piccola e buia, con la finestra tappezzata di edera, in un pomeriggio di maggio, Elizabeth aspetta la prima visita di Robert Browning. Come sempre è coricata sul divano, circondata da molti cuscini, e nonostante la primavera si annunzi con le sue dolci carezze, è ancora avvolta in uno scialle di lana. Non vuole confessarlo a se stessa, Elizabeth, ma si sente turbata. Era così piacevole quella corrispondenza con Robert Browning; aveva creato fra di loro delle relazioni così simpatiche di semplice intimità… Che cosa avverrà dopo essersi conosciuti da vicino?
Bussano giù alla porta di strada. Wilson, la cameriera, scende ad aprire. Un passo risuona su per le scale. Nel vano della porta si disegna l’alta figura di Robert Browning che si inchina. Sorridono nell’ombra i grandi occhi di Elizabeth Barrett, salutando.
Il giorno dopo un bigliettino cortese di Robert Browning s’informa premurosamente della salute di Elizabeth esprimendo la speranza che la lunga visita non l’abbia troppo stancata. Subito dopo un’altra lettera ed un’altra ancora ed un’altra ancora, finché la parola ansiosamente attesa da Robert Browning fu detta: “Sì”.
Sì: alla fine dell’estate, prima che s’inoltri l’autunno, Elizabeth insieme a Robert, fuggirà via… in Italia. E… il papà?
“Povero papà! Penso e ripenso se l’offenderei meno, se lo urterei meno dicendogli, prima, qualche cosa. Forse, chi sa? Se mi sentissi più forte correrei questo rischio. Ma così!… Appena sapesse la verità, vedi, ci proibirebbe di incontrarci, di scriverci, e debole come sono non potrei lottare… E poi, forse, un’aperta disobbedienza lo offenderebbe maggiormente che non un atto d’indipendenza… Qualche volta chiudo gli occhi per il terrore!”
Combinano tutto. Il matrimonio sarà celebrato segretamente, nella piccola chiesa di Marylebone. Nessuno saprà nulla, neppure le sorelle. Esse devono poter rispondere, onestamente senza mentire: “Non lo sapevamo”, quando scoppierà, inevitabile, la collera paterna.
In chiesa, Elizabeth sarà accompagnata soltanto dalla cameriera che partirà poi con loro per l’Italia; dalla buona, fedelissima Wilson che alle prime parole di spiegazione risponde semplicemente: “Con Lei, Signorina, io andrò sempre dappertutto”.
Dopo le nozze, dopo tante emozioni, Elizabeth ritornerà per qualche giorno nella casa paterna. Sarebbe imprudente, dice Browning, esporsi subito alle fatiche del viaggio.
E così fu.
Il matrimonio fra Elizabeth Barrett e Robert Browning venne celebrato la mattina di sabato 12 settembre 1846, nella piccola chiesa di Marylebone.
I fuggitivi approdano a Pisa. E da Pisa a Firenze. Da quel momento noi non ascolteremo più le loro vibranti testimonianze, ma la cronaca del loro arrivo in Italia ci sarà assicurata da Flush, il cagnolino di Elizabeth. A scrivere dalla parte di Flush è nientepopodimeno che Virginia Woolf che al cagnolino ha dedicato un libro!
“Flush esce ogni giorno e parla italiano con i cagnolini che incontra” racconta Elizabeth.
I due poeti erano da poco a Firenze, quando una sera udirono in strada grida e calpestio di passi che li fecero accorrere al balcone a vedere che cosa succedeva. Sotto, una gran folla ondeggiava come un mare inquieto, recando bandiere e e cantando. Le torce le illuminavano di viva luce. “Libertà” portava scritto una bandiera; “Per l’unione dell’Italia” era scritto su di un’altra.
Amore, poesia e politica. Nel 1848 i due poeti partecipano con emozione alle vicende italiane. Credono nel Risorgimento.
Nel 1849 arriva il piccolo Barrett-Browning.
Altro tempo passa; viene dichiarata la seconda guerra all’Austria. Poi il Trattato di Villafranca spegne ogni fermento patriottico. Muore Cavour. Poco dopo anche Elizabeth muore. A casa Guidi a Firenze una lapide ce la ricorda per sempre: “Qui visse e morì Elizabeth Barrett Browning che in cuore di donna conciliava scienza di dotto e spirito di poeta e fece del suo verso aureo anello tra Italia e Inghilterra. Pone questa lapide Firenze grata. 1861”.