La giustizia amministrativa punisce anche la giunta regionale campana
Con la pronuncia del Consiglio di Stato n. 4502 del 28 luglio scorso sì è confermata la decisione del Tar campano, che ad aprile aveva deliberato l’annullamento della nomina di Amendolara ad assessore regionale all’agricoltura per violazione dell’art. 46, comma 3, dello Statuto della Regione. La normativa di riferimento, difatti, si richiama al “pieno rispetto del principio di una equilibrata presenza di donne ed uomini” nella giunta, obbligo che il Presidente Caldoro non aveva onorato, perché con la suddetta nomina il numero degli uomini titolari del ruolo di assessore era salito ad undici, di contro all’unica donna che ricopriva l’analoga carica. All’epoca un avvocato,{{ Annarita Petrone}}, fece ricorso al Tar, vedendosi riconosciuta la violazione del principio della opportuna rappresentanza di genere nelle precipue sedi istituzionali.
Nell’immediatezza il presidente della giunta regionale campana si appellò al Consiglio di Stato, ribadendo il carattere programmatico e non obbligatorio della norma statutaria. Più precisamente l’art. 456, comma 3, veniva definito quale “una norma introduttiva di una misura promozionale compatibile con il quadro costituzionale”.
Già non prendere atto della pronuncia del Tar è stato, a mio parere, un’erronea scelta politica, peraltro non emulata dagli altri rappresentanti delle istituzioni pubbliche locali, che in questo ultimo periodo vedono calare la scure dell’annullamento sui rispettivi organi collegiali. Così è stato il 26 luglio per la{{ giunta comunale di Roma}} ed il 2 agosto per la {{giunta regionale della Sardegna}}, ma in tali contesti Alemanno e Cappellacci ben si sono guardati dal ricorrere al Consiglio di Stato.
Parrebbe che il vento del 13 febbraio scorso spiri su tali realtà territoriali e non in Campania, dove, addirittura, in sede di appello si è considerato l’art. 46 dello Statuto una sorta di misura incentivante il rispetto dell’equilibrio di genere negli organismi politici rappresentativi e non un vero e proprio obbligo normativo. E tutto ciò proprio nell’unica Regione italiana il cui precedente consiglio, approvando {{la legge elettorale sulla doppia preferenza maschile-femminile,}} aveva visto aumentare da quattro a quattordici le donne presenti nel consesso consiliare!
E tutto ciò in {{mancanza di un assessore alle pari opportunità}}, che potesse spendere una parola sulla questione, evitando in tal modo che si facesse la brutta figura di perdere pure in sede di Consiglio di stato. Per di più il massimo organismo di appello della giustizia amministrativa, in sede di estensione della sentenza, si è spinto a dire che la proposizione del ricorso avverso la norma statutaria che impone “il rispetto di un principio essenziale di civiltà giuridica, come la parità uomo-donna, …….. perpetuerebbe il costume, improponibile prima sul piano culturale e civile che su quello giuridico, di affermare grandi ed importanti principi di civiltà avanzata per poi disattenderli puntualmente in fase applicativa”.
Il Consiglio di Stato pare, quindi, bacchettare il Presidente Caldoro che, messo alle strette, l’altra notte ha fatto approvare dal consiglio regionale {{l’aumento da dodici a quattordici del numero degli assessori}}, facendo apparire come probabile che la scelta di quelli nuovi possa ricadere su due donne.
Vorrei augurarmi che l’auspicio diventi realtà al più presto, ma appare evidente che, alla luce della sentenza amministrativa sull’obbligo di un’equilibrata presenza di uomini e donne in giunta, sarebbe politicamente opportuna perfino una rimodulazione più ampia della giunta . Difatti, una volta compreso l’ineludibilità della risoluzione del problema della rappresentanza femminile nei luoghi istituzionali, il segnale, che dovrebbe provenire dalla Regione, è necessario che vada {{oltre il senso della pronuncia giurisdizionale}}.
La questione è proprio lì. Si è realmente compreso che non sono più procrastinabili nel tempo tali scelte, perché, altrimenti, nel vuoto della politica dovrà ricorrersi sempre ai giudici, con un ulteriore perdita di credibilità di chi ci rappresenta ai vari livelli istituzionali? {{Non è più il tempo per pensare che “tutto cambia perché nulla cambi”}}, il sentiero, già tracciato nel passato dai movimenti femminili italiani, dal 13 febbraio si è ancor di più approfondito e, se una donna, da sola, ha innescato una tale situazione, provate a pensare cosa potrebbe succedere in Campania se tante altre donne con una consapevolezza nuova si incamminino, insieme e con unità d’intenti, per la stessa strada di difesa dei loro diritti di rappresentanza politica!
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