La libertà di scegliere la propria oppressione
Donna non si nasce, lo si diventa. Il celebre motto di Simone de Beauvoir, diventato ormai il mantra di una buona parte del femminismo radicale, ha subito forse un cambiamento di significato rispetto al senso che aveva assunto ne Il secondo sesso. Nel suo libro de Beauvoir ricostruiva e decostruiva con minuzia di particolari il modo in cui la definizione di maschile e femminile aveva determinato ogni campo del sapere e ne era stata determinata a sua volta. Il genere perciò – quel costrutto culturale che tanto ha parte nel pensiero così variabile del sé – non è altro che l’insieme del sapere su maschile e femminile, sapere che influisce costantemente sul modo di immaginarsi. Ne Il sapere senza fondamenti Aldo Giorgio Gargani suggerisce che ogni tipo di sapere ha la necessità di darsi uno sfondo che vada oltre il sapere stesso e che legittimi, nascondendola, la totale arbitrarietà dei suoi assunti: il modo cioè in cui costruiamo l’immagine del mondo e la chiamiamo vera.
Lo stesso accade forse per il sapere del sé. Il sapere sul genere – femminile o maschile – che assorbiamo attraverso le pratiche quotidiane, l’educazione e lo studio è anche parte del percorso che decide ciò che diventeremo a fronte delle aspettative che il mondo e noi stessi abbiamo in relazione al nostro sesso. Ogni tempo e ogni civiltà ha costruito un “discorso” sul maschio e sulla femmina, creando la grammatica delle relazioni di ognuna e di ognuno con il sé e con il mondo. Come ogni sapere, anche questo discorso ha avuto la necessità di fondarsi metafisicamente: ecco allora il ricorso alla “natura”, alla religione, all’eternità, e non ultimo ai diritti universali, che suona come un assiomatico ridondare allo stesso modo di un “perché sì” dato a risposta alla domanda “perché?”.
La tensione tra aspettativa e volontà è dappertutto tangibile: la definizione della donna, che come femministe abbiamo imparato a mettere in discussione, ha allo stesso tempo portato alla definizione dell’uomo, che forse ha ancora bisogno di essere messa in crisi. Eppure si tratta di definizioni che si vogliono universali – anche nel discorso femminista, in cui la donna deve essere “libera” – e che ancora si scontrano con la varietà dell’individuale, creando di nuovo il paradosso del sapere che rammentava Gargani. Perché? Perché sì.
La questione è, ancora una volta, la tensione tra l’autodeterminarsi e fare scelte che minano – agli occhi altrui – l’autodeterminazione stessa. Mi riferisco, ovviamente, alla polemica sul burkini, che non è altro che un esempio della medesima tensione. Non v’è dubbio che si tratta di un capo che simbolizza un’oppressione di stampo religioso, che mira a mortificare il corpo femminile come se fosse elemento di vergogna e per il quale la donna deve umiliarsi. Ma la scelta di indossarlo è davvero lesione del diritto all’autodeterminazione e sintomo di un regime maschilista interiorizzato più di quanto non siano le pratiche quotidiane di ciascuna e ciascuno di noi che rispondono all’immagine della donna e dell’uomo che determinano le nostre scelte e il nostro definirci? Inoltre, il divieto di indossarlo, non indica semplicemente la contrapposizione di due immagini del femminile – così ben rappresentata nella famosa partita di beach volley tra Egitto e Germania in cui, come al solito, più che delle capacità si è parlato dell’apparenza delle atlete – che come tali sono statiche ed entrano necessariamente in conflitto con la volontà del singolo? È questa tensione che, tra conflitti e identificazione, definisce il sé in rapporto al proprio sesso e solo chi la vive può decidere cosa accettare e cosa rifiutare. Certo, alcuni caratteri sono più faticosi di altri, ma solo scoprendo che dietro al discorso con cui ci confrontiamo per definirci non esiste nessun fondamento che lo legittima, si può arrivare a vivere in piena autodeterminazione e nella piena consapevolezza delle concessioni che decidiamo di fare o, finalmente, di non fare più. Altrimenti, vietare il burkini somiglia un po’ alla volontà di esportare la democrazia in un altro paese. Inutile e distruttivo.