La libertà non è relativa
Cosa c’è che non va nel corpo delle donne? Davvero per mostrare la bellezza di ciò che in modo vago chiamiamo ‘anima’ (che non sempre allude alla fede religiosa, quanto piuttosto all’essenza di chi siamo) le femmine della specie umana devono nascondere le fattezze fisiche, magari anche il volto e il sorriso?
Che società è, quale progetto di relazione tra gli esseri umani indica, quali valori propone quella dove oltre metà della popolazione, per ‘sentirsi a sua agio’, ‘protetta’ ‘elevata’, degna’ e infine, persino ‘libera’ si adatta a muoversi nello spazio pubblico completamente coperta, occultando comunque sempre i capelli perché l’altra metà potrebbe turbarsi, e quindi in virtù di questo turbamento, sentirsi legittimata all’importunare, attaccare, violentare? Di che uomini stiamo parlando?
La presa di parola pubblica da parte di Silvia Romano, che ha affidato a La luce la sua prima intervista dopo il ritorno in Italia, offre la possibilità di rapportarsi con le sue scelte e di ragionare sulle sue parole.
Silvia Romano è diventata un simbolo, certo non volendolo. La sua privacy, come quella di chiunque, va protetta e rispettata, e allo stesso tempo è segno di rispetto considerare ciò che dice, ascoltarlo e interloquire con le sue affermazioni, che assumono un grande peso in virtù della sua vicenda.
Fin qui, al netto delle illazioni e dell’hate speech che l’hanno investita sin dalla sua discesa dall’aereo che, per fortuna, l’ha riportata in Italia, alcune voci femministe hanno provato a riflettere sull’inevitabile impatto della sua prima apparizione, avvolta dalla copertura totale prevista per le donne dall’Islam integralista.
Nell’attesa delle sue parole ne hanno scritto, tra le altre, Giuliana Sgrena, che come Silvia Romano ha attraversato la terribile condizione di ostaggio dei tagliagole islamici, Cinzia Sciuto e Maryan Ismail.
Non si può evitare di considerare come l’immagine di Silvia Romano avvolta nell’hijab abbia significato una enorme pubblicità per gli islamisti di al-Shabaab.
Avevamo negli occhi le foto di una giovane donna, del suo volto, dei suoi capelli e del suo corpo, gli orecchini, le collane e gli abiti colorati: a distanza di 18 mesi dal rapimento da parte di uno dei gruppi più feroci del fondamentalismo islamico Silvia Romano si è presentata come Aisha, celata dall’hijab.
Nell’intervista la cooperante narra del suo incontro con la religione islamica e, per chiarezza, voglio dire che di fronte alla rivelazione dell’esperienza di conversione non c’è altro da fare che ascoltare, perché l’incontro con la divinità è un fatto intimo e individuale che tocca il proprio senso dell’esistenza.
Invece molto c’è da dire, uscendo dall’ambito privato, dove la religione dovrebbe abitare, sui passaggi che toccano il tema del corpo femminile e della libertà, perché questi sono argomenti che afferiscono alla sfera pubblica, politica e sociale, e che ci riguardano come società.
Silvia Romano racconta: “Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo”. Quindi Silvia Romano avrebbe potuto essere una fra i tanti islamofobi? le chiede l’intervistatore, mettendo nero su bianco l’impossibilità di criticare i dettami religiosi dell’islam. Ecco uno dei nodi: quando si parla di Islam, che oggi, tra le religioni più potenti sul pianeta, opera usando la fede in chiave politica totalitaria e criminale, non è consentita alcuna critica. Quindi l’islam è un autoproclamato dogma che può sfuggire all’analisi, al biasimo, alla valutazione, altrimenti si passa in automatico alla ‘fobia’? Da quando una opinione, (quale è ogni tipo di credo umano), non è criticabile e modificabile?
Gli sforzi delle religioni patriarcali per diffondere un’immagine erronea della donna, sostiene in Anatomia dell’oppressione Inna Shevchenko, hanno dato vita al sessismo globale, responsabile dei più grandi massacri dell’umanità. Profondamente ancorato in ogni cultura, comprese le società occidentali laiche, il sessismo ogni anno costa la vita a migliaia di donne. Per controllare tutto intero il loro essere le religioni ne annettono il corpo: organo dopo organo, pezzo dopo pezzo, con regole assurde e infondate, impongono la loro autorità. Capelli, cervello, occhi, bocca, cuore, seno, ventre, mani, sesso, piedi, sono diventate le loro zone strategiche di guerra. Di recente due serie tv hanno mostrato gli effetti di questa ossessione: Califfato, prodotto in Svezia e girato in 8 puntate tra Stoccolma e la Giordania e Unorthodox, miniserie in 4 episodi tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman pubblicata in Italia con il titolo Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche.
Silvia Romano risponde così alla domanda su come sia possibile che una ragazza libera scelga una condizione in cui lo è di meno, è sottomessa, è considerata inferiore rispetto all’uomo.
“Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”.
È su questo che si deve ribattere alle parole di Silvia Romano: perché il corpo delle donne è sempre il campo di battaglia sul quale si misura il livello di civiltà della collettività. I movimenti di donne che da decenni si battono per i diritti umani, che sono universali e non relativi, hanno sempre denunciato come una delle trappole più micidiali del patriarcato la mercificazione, che si esprime attraverso l’assimilazione del corpo delle donne e delle bambine agli oggetti, e che funziona nel marketing a ogni latitudine. Lo stesso meccanismo di annientamento e di controllo viene operato dalle religioni che, per eludere ogni critica, adottano un linguaggio umanista per giustificare l’oppressione. Così indossare il burqa o il velo diventa, come per magia, un “diritto delle donne a disporre liberamente del loro corpo”, o un “oggetto liberatore”: formule insopportabili e ipocrite, quando si pensa ai milioni di donne nel mondo costrette a portarlo, pena anche la morte, da feroci dittature teocratiche totalitari. Qui, in Europa, le campagne contro l’aborto diventano un “diritto alla vita”, nel disprezzo di quei milioni di donne che hanno meno diritti del loro feto. Anche le richieste di censura e di sanzioni nei confronti della libertà di espressione diventano un “diritto a non essere offesi”. Ma a meno che non sia un inequivocabile appello alla violenza o all’odio nei confronti di un individuo, la libertà di espressione non conosce limiti, e non deve, in democrazia. “Nessun gruppo di esseri umani può esigere un’immunità totale all’ offesa” – afferma ancora Shevchenko.
Sottoscrivo, e aggiungo, suggerendone la lettura, ciò che Irshd Manji, musulmana e lesbica, autrice di Quando abbiamo smesso di pensare, racconta di sé come credente “Il Corano è contraddittorio, e come tale è umano. Noi musulmani non abbiamo avuto ancora la nostra riforma liberale, ma innumerevoli riforme conservatrici. Oggi riformare non significa dire alla gente come pensare, ma dare loro il permesso di pensare e di fare domande sui nostri testi sacri. E questa è considerata una sorta di eresia anche fra i musulmani non estremisti. Sono una musulmana dissidente, all’inizio del mio libro dico che sono una Muslim refusenik, ma questo non significa che io rifiuti l’Islam: rifiuto di unirmi a un esercito di automi in nome di un dio, incluso il mio”.