unknown-3di Gabriella Musetti

in Letterate Magazine

Nata a Messina nel 1937 è mancata a Roma, dove abitava da molti anni, il 27 ottobre 2016. Mi piace ricordare Jolanda Insana attraverso alcune immagini e incontri. L’ho conosciuta nel 2004 a Ferrara, al V Convegno Nazionale SIL “Leggere e scrivere per cambiare il mondo” (26-27 marzo), curato da Monica Farnetti. Avevo invitato Jolanda a una sezione del Convegno, intitolata “Donne in versi”, insieme ad altre poete. Questa donna minuta, con i capelli bianchi ricciuti, molto decisa nel parlare e con una voce profonda mi colpì per la sua personalità rustica, sbrigativa, con lampi di ironia fulminei, e uno sguardo acuminato. Come carica di una saggezza terragna e mediterranea dalle lontane radici, di chi non si sorprende più degli eventi, quali che siano, delle persone, e tuttavia è curiosa, sempre indagatrice.

La sua lettura poetica fu una vera performance, con Jolanda che seguiva con il movimento delle braccia e leggere ondulazioni del corpo in avanti e indietro la dizione dei versi a memoria, cadenzati dal ritmo aspro e arrocchito di una recitazione ricca di vocaboli dialettali siciliani, i suoni che cadevano sul pubblico attentissimo, in una generale atmosfera di sacro rito collettivo. Una tensione acuta e un’attesa: si era testimoni di un evento, tutti percepivamo che qualcosa stava accadendo. E si potrebbe parlare della densità memoriale e immaginifica della Sicilia, da cui proveniva Jolanda, oppure della arcaica cultura classica che insegnava a scuola (era anche notevole traduttrice di Saffo, Plauto, Euripide, Callimaco, Lucrezio e altri importanti autori).

Ricordo anche la presentazione che fece di sé in terza persona, nel 1990, per quel libro collettaneo che fu l’Autodizionario degli scrittori: “Conobbe la guerra e i fichi secchi, e dunque predilige parole di necessaria sostanza contro il gelo e i geloni (Ipponatte docet) dell’inverno freddissimo del ’44 e contro i bombardamenti a tappeto su Messina e i boati di terremoti”. L’ironia irrompe da subito in una descrizione scarna che fornisce tuttavia alcune chiavi di lettura. E senza dubbio l’attenzione alla parola è stata la cifra della sua poesia, una parola coltivata a lungo nello studio, con amore e con rabbia per le sue profonde asperità semantiche e fonetiche, poi scagliata di getto fuori da sé. Come a colpire, a provocare, a polemizzare. E l’istinto battagliero Jolanda lo ha conservato per molto tempo, nonostante i diversi malanni e le molte difficoltà della sua vita.

Sono i suoni a veicolare il senso, attraverso il suono la parola penetra dentro le persone, e anche nella lettura silenziosa di un libro ricreiamo nella mente i suoni delle parole. I suoni non sono separati dal senso, sono un tutt’uno con esso, non è quindi un gioco fonetico fine a se stesso che interessa l’autrice, bensì un lavoro di scavo che liberi la lingua dalle incrostazioni e usure che ne nascondono la forza originaria. Anche le traduzioni che continuò a svolgere per molto tempo si iscrivono in questo operare: un lavoro sulla lingua che forzi e allarghi il campo di ricezione, una scrittura e riscrittura che sia confronto produttivo tra l’attività propria del tradurre e la scrittura poetica, correzioni, varianti, rifacimenti.

Una poesia ribelle, libera e aperta alla realtà concreta della vita come appare nella quotidianità, nelle sue forme più comuni, popolari, lontane dai salotti intellettuali alla moda, dove tutto diviene artificio e gioco di rimando. Ha sempre scansato i consessi cultural-mondani per una scelta di rigore perseguito con coerenza, nella ricerca di una dialettica accanita con la realtà come si presenta, anche nelle sue forme più scurrili, oscene, materiali. “In genere il poeta non s’interessa unicamente al linguaggio della poesia, della tradizione poetica, ma sperimenta tutti i linguaggi, da quelli alti a quelli bassi, gergali e aulici, puri e impuri, devoti e demoniaci; medicamentosi e cronachistici, e così via. È così che il poeta s’inventa la propria lingua”, scriveva in Parole che trascinano senso (1998). È una scelta meditata quella di misurarsi con la realtà contemporanea, con il mondo così come è, con quel tanto di visionarietà necessaria a condurre a lungo una battaglia difficile contro le nefandezze e senza i conforti di illusioni gratificanti, ad esempio la bellezza, con la consapevole convinzione che esistono tenerezze ma anche meschinità, oltraggi, violenze di cui occorre parlare.

La voglio ricordare con questi versi, e con un invito a leggere i suoi testi dove scorre tutta la sua potente umanità.

Versi pubblicati  in occasione del centenario del Terremoto di Messina (28 dicembre 1908).

accurrìti accurrìti gente

me figghia me figghia

portate una scala

me figghia

’na scala ’na scala

pigghiate me figghia

accurrìti accurrìti

u focu u focu

sa mancia

viva

a fini du munnu

a fini da so vita

viniti curriti

’na scala

tièniti tièniti

figlia

 

**

 

scanto

scanto grande

e mascelle serrate

narici aperte per assecondare il respiro

strette le chiappe per darsi un contegno

molli le gambe nel sobbollimento

di terra e mare

e gli occhi aggrottati

nel boato

finita

è finita la vita

ma riprende a fiatare

disserra la bocca

si tocca la testa

con due dita si carezza le guance e trema

non sa cosa c’è dietro la porta

di lì è passata la morte

 

**

 

impazzirono

e avevano sete

e non avevano acqua

e nudi correvano

alle finestre senza vetri

al balcone franato

con gli occhi insanguinati

in pianto

(da: Frammenti di un oratorio, Viennepierre, 2009)