La parola delle donne nella relazione con lo spazio pubblico
Questi occhi non sono per piangere. “Donne e spazi pubblici”, è il titolo dell’opera curata da Marie-Hélène Laforest, docente di letteratura inglese
all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e attuale presidente del
Centro “Archivio delle donne”. Il titolo è tratto dai versi della giamaicana Opal Palmer Adisa (Tamarind and Mango Women, Sister Vision Press, 1992), e annuncia “la sfida lanciata alle norme maschili predominanti nelle nostre società […], sfida la cui posta in gioco è la libertà di scegliere e di uscire allo scoperto con i propri sogni.”
Nell’Introduzione, la curatrice esplora “{{il triste primato italiano della
ridotta presenza femminile nella vita pubblica}} che ci è costato la recente condanna dell’Unione Europea sulla partecipazione delle donne alla vita politica” e ripercorre, realisticamente, {{il percorso della conquista di spazi di parola,}} la scrittura è uno di questi, che “grazie al femminismo” si sono aperti nonostante l’ancora vitale androcentrismo.
Sono gli anni Ottanta del Novecento, infatti, che, per esempio, nelle
istituzioni universitarie “le donne sono riuscite a indirizzare la ricerca
verso nuovi orizzonti: il recupero di figure femminili ignorate o
misconosciute e di tradizioni femminili (nel campo letterario); riletture
della storia con conseguente rivalutazione della differenza; una
particolare attenzione ad alcune questioni femmini e, in campo
scientifico, un nuovo approccio a vecchie problematiche.”
Il libro raccoglie i {{contributi di numerose Autrici}} (Opal Palmer Adisa,
Jackie Kay, Sara Marinelli, Serena Guarracino, Maunela Coppola, Marina
Vitale, Maria Paola Guarducci, Anna de Meo, Maria Fortuna Inconstante) che trattano della “parola femminile” in altrettanti campi: dalla fisica e
dalla chimica, al canto, dallo “spazio del creolo nella poesia caraibica
femminile” all’affermazione ed eclissi delle donne nelle redazioni delle
riviste moderniste inglesi.
“I testi inclusi”, sottolinea la curatrice ” si propongono di evidenziare
gli ostacoli che devono affrontare le donne in una società in cui il
maschile rappresenta {{la norma e le forme più o meno sottili di sottrazione del potere}} di cui sono vittime”. Nel contempo, “il loro sguardo si rivolge alle strategie che le donne – ogni singola donna – possono mettere in atto per condurre la loro lotta di emancipazione”.
Particolarmente interessanti le pagine “sulle {{donne senza fissa dimora}}:
donne e spazio pubblico nella scrittura sudafricana femminile” che
affronta i “Ghetti dell’immaginario”, specchi dell’atmosfera di
segregazione a lungo sofferta e non ancora pienamente superata
nell’orizzonte collettivo.
Esplorando, con parole di Gina Wisker, “la finalità creativa e
immaginativa della maniera in cui {{le scrittrici sudafricane}} fanno
interagire spazio e identità, s’evincono i limiti, anche fisici,
dell’abitare al femminile; {{lo spazio domestico}}, “anziché essere il posto cui le donne sono associate, è più spesso ritratto come {{un luogo di coercizione}}, un terreno in cui le donne sono sottoposte a violenza e dove, comunque, sperimentano forme di oppressione che generano frustrazioni e senso di sconfitta.” Ambientazioni realistiche “in luoghi sordidi e tetri” nei quali erano costrette dall’apartheid, unito a una “certa {{propensione all’autobiografismo}}” hanno spesso “{{opacizzato il rapporto tra femminismo e scrittura}} nelle opere delle Autrici sudafricane nere” con privilegio della
chiave socio-politica, tuttavia “non si può concordare con Cecil Lockett
quando afferma che la loro opera prima è soprattutto socio-politica”.
Di queste Autrici, è ricordata la raccolta di racconti {Footprints in the
Quag. Stories & Dialogues form Soweto,} (1989), di Miriam Tlali, che
individua un tratto comune dei personaggi proprio nella mancanza di uno
spazio della donna e per la donna. Il suo concentrarsi su donne
lavoratrici, piuttosto che su “madri o mogli”, esprime con maggior forza
il “carico che grava sulle donne”, aumentato dal matrimonio e dalla
maternità. Il messaggio è quello di una donna considerata in toto, come
persona, sottratta a troppo facili vittimizzazioni e agli stereotipi della
maternità.
Altro testo molto interessante, “{Miss Lou e lo spazio del creolo}”, cultura piena di transizioni e di trasporti. “L’importanza del recupero e della {{riappropriazione delle forme di conoscenza orali}}” si legge, “si pone anche come recupero di un’identità femminile troppo a lungo sottovalutata e ridotta al silenzio e che riutilizza quella stessa lingua che era stata relegata allo spazio familiare del racconto e della quotidianità, della ‘volgarità’ e della mancanza di istruzione”. {{La parola è un’arma,
appuntita}}. “Se i corpi delle donne sul tram si allargano e si espandono
per occupare uno spazio pubblico che reclamano per sé, il corpo della
poetessa si appropria dello spazio letterario”. Con la metafora del tram,
il “fatti più in là” reclama una tensione “tra oralità e scrittura che
caratterizza gran parte della produzione poetica dei Carabi.”
Dai Carabi, tramite Manuela Coppola, il proverbio africano: {Le donne non hanno bocca / ogni volta che muore una griotte brucia un’intera
biblioteca.}
– Marie-Hélène Laforest (a cura di), {Questi occhi non sono per piangere. Donne e spazipubblici}. – Napoli: Liguori, 2006; isbn 978-99-207-4015-3.
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