La resa del corpo
{La vita del corpo è la vita delle sensazioni e delle emozioni. Il corpo prova vera fame, vera sete, vera gioia… vera ira, vero dolore, vero amore, vera tenerezza, vero calore, vera passione, vero odio, vero sconforto. Tutte le emozioni appartengono al corpo; la mente non fa che riconoscerle}.
_ {{D.H. Lawrence}}
{Gli uomini pensano di risolvere tutto con la mente invece di “sentire”. Ma il sentire non ha a che fare con l’intelligenza o con la forza. Solo lavorando su di sé, sul proprio corpo – grazie al quale l’uomo “sente”, l’uomo può curarsi e aspirare, come è sacrosanto, a una vita sana, libera, felice. Ed essere in grado di amare veramente}.
_ {{Alexander Lowen}}
{Ciò che si oppone conviene, e dalle cose che differiscono si genera l’armonia più bella, e tutte le cose nascono secondo gara e contesa}. _ {{Eraclito}}
Agli occhi della Chiesa e della morale benpensante, David Herber Lawrence, Nikos Kazantzakis e Jose Saramago si sono macchiati di un peccato mortale: hanno reso a Gesù Cristo il suo corpo naturale.
{{Lawrence}}, un anno prima di morire, scrive {L’uomo che era morto}: un breve racconto in cui ci presenta Gesù Cristo che si risveglia dal proprio martirio.
Libero da ogni missione spirituale, amareggiato, disgustato dalla sua precedente pretesa di salvare l’umanità e avvilito dalla folla dei seguaci che lo avevano fanaticamente attorniato adorandolo, coglie nel suo risveglio una nuova possibilità di rinascere alla vita semplicemente come un essere umano.
Nella solitudine e nel silenzio del suo nuovo giaciglio comincia a percepire le vibrazioni del suo corpo rinato, la dolcezza e la gratitudine per la donna che si occupa di lui, il richiamo dei piaceri semplici e la rinuncia a qualsivoglia bisogno di grandezza: libero da vincoli e ambizioni, si arrende a se stesso, alla vita del corpo, alla pienezza dell’amore carnale.
Il tema non costituisce una novità, David Herbert Lawrence, in tutta la sua produzione letteraria, non si è mai discostato dall’idea che l’unica trascendenza possibile risiede nella quotidiana rinascita all’universo delle cose; che il peccato più grande è costituito dalla rimozione del corpo e dalla castrazione del suo significato spirituale più profondo.
L’uomo che era stato crocifisso, grazie al contatto con la natura e il sole della vita, si rianima dal sonno della morte, si guarda intorno ed inizia ad osservare il mondo attorno a sé con sguardo nuovo e partecipe. All’alba della sua nuova consapevolezza realizza che la vera resurrezione è l’essere ritornato alla Natura, e nel far ciò abiura la vita passata e la sua astratta predicazione.
Qualche anno dopo, nel 1954, il Pontefice della Chiesa Cattolica, mette all’indice: {L’ultima tentazione di Cristo}, di {{Nikos Kazantzakis}} il quale, riprendendo i versi di Tertulliano, risponde:“Ad tuum, Domine, tribunal appello”.
_ Una risposta che ancora una volta mette in discussione l’autenticità delle motivazioni morali di cui la Chiesa sovente si fregia nelle sue sante campagne politiche.
“Mi avete maledetto, Santi padri? Io vi benedico: possa la Vostra coscienza essere chiara quanto la mia e possiate essere morali e religiosi quanto lo sono io”.
Questo, sarà il suo ulteriore commento nei confronti di una scomunica che lo perseguiterà senza soluzione di continuità fino alla sua morte, quando gli verrà persino negata l’esposizione della sua salma.
Katzantzakis è stato un intellettuale ed un artista di altissimo livello. Dotato come pochi di una profonda quanto vasta cultura umanistica oltre che di una profonda spiritualità. Sicuramente non ci si poteva aspettare che un uomo di tale acume e sensibilità restasse inerme di fronte all’aggressione di un messaggio cristiano volto all’ottundimento delle menti. In tutta la sua vita il valore delle argomentazioni fecero di lui un temibile avversario per la Chiesa Ortodossa e Romana; egli ebbe il torto di esortare l’umanità a preservare la propria dignità, la propria capacità di giudizio e, soprattutto, le proprie responsabilità civili e morali.
Kazantzakis ci indica un rapporto con Dio scevro da ogni infrastruttura clericale e da ogni forma di intermediazione nel contatto con l’anima; il suo grido di Dio è di una tale bellezza e vitalità da sconvolgerci fino al profondo delle nostre radici:
“Io, l’Urlo, sono il tuo Signore, il tuo Dio! Non sono un rifugio. Non sono una Casa, neanche la speranza. Non sono Padre, né Figlio, né Spirito. Sono il tuo Generale! Tu non sei uno schiavo, né un giocattolo nelle mie mani. Non sei mio amico, non sei mio figlio. Sei il mio compagno nella battaglia. Difendi coraggiosamente gli stretti che ti ho affidato; non tradirli! Hai il dovere e le possibilità per diventare un eroe nel tuo ambito. Amare il pericolo. Qual è la cosa più difficile? Questa pretendo! Qual è la strada da seguire? La salita più ardua. Questa strada ho intrapreso anch’io; seguimi! Impara ad obbedire. Solo quello che obbedisce ad un ritmo superiore a se stesso è libero. Impara a comandare. Solo colui che sa comandare è il mio rappresentante su questa terra. Amare la responsabilità. Dire: io, soltanto io ho il dovere di salvare il mondo. Se non si salverà sarà soltanto colpa mia.”
Qualche anno dopo nel 1992 la storia si ripete con un altro romanzo: {Il Vangelo secondo Gesù Cristo} di {{Josè Saramago}}.
_ Ancora una volta volano le minacce di scomunica da parte dei benpensanti che colgono in questa nuova operazione di umanizzazione di Gesù Cristo una blasfemia intollerabile a tal punto che Saramago sarà costretto ad abbandonare il Portogallo e rifugiarsi alle Canarie dove tuttora risiede.
Il Vangelo di Saramago è un’opera di inestimabile valore letterario, ma ha avuto il torto di dipingere la figura del Cristo come quella di un povero cristo vittima di quelle ambizioni di potere paterne che puntualmente ricadono sui figli.
Umano forse troppo, il Cristo di Saramago, nasce sporco tra gli umori di una madre sicuramente non vergine. Un uomo che spesso si rivela vulnerabile, smarrito, come un qualunque essere umano che spesso soffre in silenzio di fronte ad un padre troppo preso dalle sue ambizioni di potere .
Un Cristo in conflitto tra la sua parte carnale e il desiderio di soddisfare le ambizioni paterne. Così in bilico tra perfezione e umanità, tenta di sfuggire la propria divinità. Instaura un’amicizia col diavolo, cade nel peccato della carne e, tuttavia, cerca di soddisfare persino le aspettative paterne raccogliendo fedeli lungo le sue peregrinazioni. Alla fine muore in croce, ma con la netta sensazione di essere stato manipolato e immolato ad un progetto deciso da altri.
Non muore per salvare gli uomini, ma per rafforzare ed allargare il dominio di Dio e di Satana in eterno conflitto.
Tutti e tre i romanzi portano alla luce la complessità del dilemma umano dilaniato tra spirito e carnalità, anima e corpo, ideale e reale. Un campo di battaglia straziato da secoli di morale sessuofobica al servizio di elevati ideali di purezza e perfezione. Tutte e tre le opere letterarie sono, inoltre, un interessante esempio di ritorno alla scena storica primaria ed al capovolgimento dei suoi valori peculiari.
{{Carl Jung}}, riprendendo un tema caro ad Eraclito, potrebbe definire queste forme letterarie come enantiodromiche. L’enantiodromia è la tendenza di ogni concetto ad alimentare il suo opposto.
Eraclito aveva utilizzato questo termine per indicare il gioco degli opposti nel divenire; in altri termini tutto ciò che esiste passa al suo opposto. Egli si servì della medesima definizione per descrivere un fenomeno caratteristico che si verifica quasi universalmente, là dove una direttiva completamente unilaterale domina la vita cosciente; quando questo avviene, con il tempo viene a formarsi una contrapposizione inconscia altrettanto forte che inizialmente si manifesta con un’inibizione delle prestazioni della coscienza, ed in seguito con un’interruzione dell’indirizzo cosciente.
Nulla di aberrante, è un processo naturale osservabile ovunque. Restituire corpo, sessualità e umanità a Gesù Cristo è un gesto corretto sul piano enantiodromico; d’altronde dovremmo ricordarci che fino al concilio di Trento (l’antirinascimento per eccellenza) Gesù era chiaramente rappresentato corredato di attributi sessuali attivi. Sono moltissime le opere d’arte che possono testimoniarlo. La repressione e la negazione di Cristo ha luogo con il Concilio di Trento e con esse anche quelle del resto dell’umanità. Castrazione e sessuofobia divennero la nuova forma di martirio, la nuova croce su cui immolarsi.
Purtroppo abbiamo dimenticato che la virilità di Gesù è una componente fondamentale nella concezione cristiana, negare questa evidenza, negare la sessualità di Cristo, equivale a negare l’ensarcosi: l’incarnazione del Figlio del Cielo e, dunque, negare il dogma stesso del Dio-uomo; il che equivale a pronunciare bestemmia.
Come non dare ragione a Saramago quando, nel Vangelo secondo Gesù, afferma: “È meglio non azzardare giudizi morali assoluti perché, se daremo tempo al tempo, arriverà sempre il giorno in cui la verità diventerà menzogna e la menzogna si trasformerà in verità.”
{{David.H Lawrence}}, {{Nikos Kazantzakis}} e {{Josè Saramago}} potrebbero tuttora rappresentare, per la Cristianità, interlocutori di grande prestigio se non fosse così radicata la paura di mettere in discussione il bisogno di una verità assoluta, il bisogno di delegare al di fuori di noi le nostre responsabilità morali, di trovare un rifugio dalla paura del vuoto e soprattutto dalla paura di noi stessi.
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