La ricetta contro la crisi si chiama “infrastrutture sociali”
Articolo di Tiziana Canal e Valentina Gualtieri
Si va facendo strada, anche se ancora troppo lentamente, la convinzione della necessità di un intervento diretto dello stato per sostenere la domanda e l’occupazione nell’eurozona. Abbiamo ormai sperimentato l’effetto distruttivo delle politiche di austerità che invece avrebbero dovuto favorire crescita e occupazione aumentando la fiducia degli investitori privati. Stiamo tuttora verificando l’inefficacia della politica monetaria della Banca Centrale Europea, il quantitative easing. Come aveva mostrato già Keynes negli anni trenta, e come stiamo faticosamente reimparando ora, quando l’intero settore privato non spende, è indispensabile che intervenga lo stato a sostenere la domanda, e per questa via il reddito e l’occupazione.
La necessità di investimenti pubblici è stata accettata, seppure cautamente, anche a Bruxelles. Si discute inoltre di consentire un aumento degli investimenti pubblici a livello nazionale, escludendo la spesa per investimenti dai vincoli di bilancio del “fiscal compact”.
Il crescente favore per un aumento degli investimenti pubblici ha posto tuttavia l’accento sempre su investimenti in infrastrutture fisiche, per esempio costruzioni, strade, ponti, nell’idea che questi, e solo questi, possano contribuire a migliorare la capacità produttiva, e dunque la crescita, del paese. Questa è anche uno dei pochi elementi certi del programma del neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump, e della cosiddetta “populist economics” (vedi Summers) – insieme a un consistente taglio delle tasse sui ceti più abbienti e a una deregulation in campo finanziario ed energetico.
Da lungo tempo su InGenere stiamo sostenendo invece l’importanza di investimenti in infrastrutture sociali. La spesa in istruzione, salute e cura contribuisce al potenziamento e al miglioramento della capacità produttiva di un paese tanto e forse più degli investimenti fisici. Migliora il suo “capitale umano”, cioè crea una popolazione più istruita, più sana, più libera nella scelta tra cura e lavoro retribuito. Ha inoltre un impatto più elevato sull’occupazione e sul reddito, così che dopo un certo numero di anni “si ripaga da sé” attraverso le imposte sul reddito dei nuovi occupati. Infine, può contribuire a risolvere alcuni importanti problemi economici e sociali delle nostre economie: la bassa produttività, le carenze di servizi di cura, la diseguaglianza di genere sia nel mercato del lavoro sia nella distribuzione del lavoro di cura non pagato. Però, nonostante i benefici effetti di lungo periodo del miglioramento delle infrastrutture sociali, la spesa per costruire un ponte è considerata un investimento e quindi potenzialmente può essere esclusa dal calcolo del deficit, mentre la spesa per gli asili nido è “spesa corrente”, come se fosse l’acquisto di un bene di consumo, e quindi rientra nel calcolo del deficit. L’economia femminista ha da tempo sollevato il problema di questa disparità nel modo in cui sono contabilizzati gli investimenti in capitale fisico e in capitale umano.
I risultati sugli effetti positivi di investimenti in infrastrutture sociali hanno trovato ulteriore conferma in un recente studio, a cura del UK Women’s Budget Group. Lo studio ha stimato l’impatto occupazionale e di genere di un investimento pubblico, pari al 2% del Pil, rispettivamente in costruzioni e nella cura – sia ai bambini che agli anziani – in sette paesi industrializzati: Australia, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Svezia. Questi due settori sono stati scelti come rappresentativi rispettivamente di investimenti pubblici in infrastrutture fisiche e in infrastrutture sociali. I paesi invece sono rappresentativi di diversi sistemi di cura. L’aumento della spesa attiva direttamente produzione e occupazione nei due settori. A questo primo impatto diretto, si aggiunge l’impatto indiretto rappresentato dalla maggior domanda di input intermedi necessari per la maggior produzione dei due settori. Infine, va aggiunto l’impatto indotto sulla domanda di beni di consumo dall’aumento del reddito dei maggiori occupati, che genera a sua volta aumento di produzione, reddito e così via, in un aumento moltiplicativo. Un primo risultato importante è che l’investimento nella cura crea complessivamente più occupazione rispetto all’investimento in costruzioni, confermando così risultati precedenti, che avevamo già indicato.
Oltre all’ammontare di occupazione complessivamente attivata, possiamo anche distinguere dove questa viene creata e le differenze di genere nei vari stadi.
Per quanto riguarda l’aumento diretto, data l’elevata intensità occupazionale della cura e l’ancora elevata segregazione occupazionale, l’investimento in cura genera non solo maggiore occupazione, ma anche maggiore occupazione femminile[1]. Nel settore delle costruzioni, che è a predominanza maschile, l’aumento del tasso di occupazione complessivo varia fra lo 0,5 e l’1,4% e solo fra il 6 e il 14% dell’occupazione incrementale è femminile. Il contrario avviene naturalmente nel settore della cura, dove, per effetto della maggiore intensità di lavoro e elevata incidenza di occupazione femminile, avremmo un aumento del tasso di occupazione femminile variante fra il 2,4 e il 5,5%, contro un aumento di solo 0,4 e 1,3% per gli uomini (la quota dell’incremento dell’occupazione che va alle donne varia fra il 75 e l’85%). La scelta del settore in cui investire, costruzioni o cura, avrebbe dunque un impatto rilevante sul differenziale occupazionale di genere, aumentandolo, nel caso delle costruzioni, e riducendolo nel caso della cura. Se l’investimento pubblico fosse accompagnato da politiche volte a ridurre la segregazione occupazionale, sostiene lo studio, ne potrebbero derivare conseguenze positive non solo in termini di segregazione, ma anche in termini di divari salariali di genere.
Gli effetti indiretti sull’occupazione, indotti dall’acquisto di beni intermedi, sono ovviamente maggiori per il settore delle costruzioni – il settore della cura consiste prevalentemente di lavoro e usa meno beni intermedi – e vi è, nei due casi, una prevalenza di occupazione maschile.
Vi sono infine da considerare gli effetti indotti sull’occupazione dal maggior reddito guadagnato dalle famiglie, in parte speso in beni di consumo, che saranno prodotti, generando occupazione addizionale[2]. Questi effetti sono maggiori nel caso della cura, poiché riflettono il maggior incremento dell’occupazione dell’investimento (effetti diretto e indiretto).
L’effetto complessivo per i sette paesi è indicato nella tabella riportata. In Italia la differenza nel numero dei posti di lavoro complessivi generati dai due tipi di investimento è di 325mila unità. Il gap di genere nell’occupazione aumenterebbe del 9 per cento a svantaggio delle donne se si investisse in costruzioni, diminuirebbe del 9 del cento se si investisse in infrastrutture sociali.
Lo studio non fornisce una stima precisa del numero di anni necessari per ripagare l’investimento iniziale – per una simulazione si veda la ricerca di Francesca Bettio ed Elena Gentili sugli asili – attraverso una riduzione dei sussidi di disoccupazione e un aumento delle entrate pubbliche per le imposte pagate dai nuovi occupati. (28/09/2016)