La risoluzione del mito dell’uomo e la fine del femminismo
La conservazione del mito dell’uomo – “camuffato”, “nascosto”, “ibernato” – è la sola vera condizione di vita e di esistenza del femminismo. Come resistere all’omertà e al “vortice del disinganno”?E’ possibile per il femminismo smaltire, risolvere il mito dell’uomo senza morirne, senza decretare, assieme alla fine di quel mito, la propria fine?
Non sarà proprio il timore, l’angoscia di questa fine a mantenere in vita tale mito?
E qual è il prezzo pagato dal femminismo per questo mantenimento?
Sono questi alcuni degli interrogativi che nascono dalla lettura di un passo del {Diario } di {{Lonzi }} datato 26 Dicembre 1976 e che un femminismo “rivoluzionario” non dovrebbe ignorare:
“Il mito dell’uomo è di tutte, sia come partner che come cultura, e non c’è proposizione rivoluzionaria o atteggiamento di riserbo che tenga: il mito è lì, camuffato, nascosto, ibernato, ma pronto a uscire fuori alla prima occasione. Il femminismo non deve istituzionalizzare la tipica inibizione delle donne che solidarizzano tra loro negando reciprocamente il mito dell’uomo. Il femminismo non è altro che desiderio di un processo di liberazione attraverso il quale smaltire questo mito, NON NE E’la RISOLUZIONE. Quella rappresenterebbe la fine del problema, quindi LA FINE DEL FEMMINISMO. La femminista è una figura drammatica che nega l’evidenza con l’avallo di un’altra femminista che a sua volta la nega, finchè l’omertà in un punto della catena si rompe e nessuna capisce più da dove ha tratto la certezza con cui negare l’evidenza. Ma se resiste al vortice del disinganno, riscopre anche la verità del suo desiderio di autonomia e di libertà dal richiamo maschile. Può ritrovarlo nelle altre e ripartire per un cammino meno prestigioso del precedente – avere un’ideologia anche ridotta ai minimi termini è pur sempre un segno di potenza se non di potere – dove non esistono alleanze possibili, ma la Solitudine e uno scontare momento per momento, individualmente, nella propria vita l’idealizzazione dell’uomo, il bisogno del suo consenso, quegli entroterra che fanno parte della storia di ognuna e che non si logorano se non vivendoli e prendendone coscienza (…). Infatti di quel nuovo cammino non sappiamo quasi niente: se è una nuova illusione, se è percorribile, se è”.
E ancora:
“(…) Ma allora questo femminismo cos’è? Ricerca dell’uomo, del rapporto con l’uomo dopo aver trovato se stesse. L’amica serve a trovare se stesse ma l’obiettivo è l’uomo (…). Non si scappa di lì (…). D’altra parte per me quella senza partner rappresentava la prova evidente di un distacco dall’uomo. Ma qui mi sbagliavo”.
{{Lonzi}}, con l’acutezza che da sempre la contraddistingue, enuncia temi profondissimi con l’aria di dirci le cose più semplici di questo mondo, guidata com’è dalla consapevolezza di un felice sodalizio fra profondità e semplicità. La solidarietà fra donne, istituzionalizzandosi, rischia di occultare pericolosamente ai loro stessi occhi il mito – che ciascuna inconsciamente conserva – dell’uomo. Così, tra il desiderio del femminismo di smaltire questo mito-rifiuto e la reale capacità di attuarlo, ce ne corre – e per una buona ragione: lo smaltimento del mito dell’uomo segnerebbe la propria fine. Il femminismo, insomma, può vivere solo a condizione di mantenere in vita, irrisolto, il{{ “mito dell’uomo”.}} L’esperienza e la storia del femminismo, per come l’ho vissuta e la vivo, sembra confermare in pieno il destino tragico che la lungimiranza di {{Lonzi }} aveva individuato, previsto e diagnosticato come fatale:
“La femminista è una figura drammatica che nega l’evidenza con l’avallo di un’altra femminista che a sua volta la nega finchè l’omertà in un punto della catena si rompe e nessuna capisce più da dove ha tratto la certezza con cui negare l’evidenza”.
Ma di negazione in negazione, di rimozione in rimozione dell’evidenza, non si avanza – se non sintomaticamente – e nulla si costruisce in termini di desiderio di autonomia e di libertà femminile se non rinunciando al richiamo maschile fondato su ideologie, poteri e alleanze. A nulla si approda senza quella solitudine e quella presa di coscienza individuale capace di riconoscere e di dissolvere, fino al definitivo logoramento,il bisogno dell’uomo e del suo consenso.
C’ è dunque, per {{Lonzi}}, un nuovo e diverso cammino da fare, un cammino quasi del tutto ignoto che potrebbe essere un’ennesima illusione, che potrebbe essere non percorribile e della cui esistenza si può persino dubitare:
“Infatti di quel nuovo cammino non sappiamo quasi niente: se è una nuova illusione, se è percorribile, se è”.
Parole che, attraverso una sequenza di “se” dubitativi, contemplano tuttavia per il femminismo, {{un’avventura possibile}} dalla quale, bandita ogni certezza, la dimensione del rischio emerge nuda.
Che cosa sappiamo oggi di quel nuovo cammino auspicato da {{Lonzi}}? Ne sappiamo davvero qualcosa di più? Siamo in grado di dire se è una nuova illusione, se è percorribile, se è?
“Ho scartato un pacco con tanti fogli d’imballaggio per arrivare poi alla constatazione di niente, di una molla interna che funziona così e non c’è da sganciarla perché allora finisce tutto. Non sono triste perché Ester e Sara mi hanno accusata e fatto soffrire, ma perché la liberazione non apre su un Eden, su un’armonia, su una soluzione dei rapporti umani, ma sulla rinuncia e l’abbandono della speranza”.
La Risoluzione del mito dell’uomo e la fine del femminismo
Ma di negazione in negazione, di rimozione in rimozione dell’evidenza, non si avanza – se non sintomaticamente – e nulla si costruisce in termini di desiderio di autonomia e di libertà femminile se non rinunciando al richiamo maschile fondato su ideologie, poteri e alleanze.La conservazione del mito dell’uomo – “camuffato”, “nascosto”, “ibernato” – è la sola vera condizione di vita e di esistenza del femminismo. Come resistere all’omertà e al “vortice del disinganno”? E’ possibile per il femminismo smaltire, risolvere il mito dell’uomo senza morirne, senza decretare, assieme alla fine di quel mito, la propria fine? Non sarà proprio il timore, l’angoscia di questa fine a mantenere in vita tale mito? E qual è il prezzo pagato dal femminismo per questo mantenimento? Sono questi alcuni degli interrogativi che nascono dalla lettura di un passo del {Diario} di Lonzi datato 26 Dicembre 1976 e che un femminismo “rivoluzionario” non dovrebbe ignorare:
{Il mito dell’uomo è di tutte, sia come partner che come cultura, e non c’è proposizione rivoluzionaria o atteggiamento di riserbo che tenga: il mito è lì, camuffato, nascosto, ibernato, ma pronto a uscire fuori alla prima occasione. Il femminismo non deve istituzionalizzare la tipica inibizione delle donne che solidarizzano tra loro negando reciprocamente il mito dell’uomo. Il femminismo non è altro che desiderio di un processo di liberazione attraverso il quale smaltire questo mito, NON NE E’ la RISOLUZIONE. Quella rappresenterebbe la fine del problema, quindi LA FINE DEL FEMMINISMO. La femminista è una figura drammatica che nega l’evidenza con l’avallo di un’altra femminista che a sua volta la nega, finchè l’omertà in un punto della catena si rompe e nessuna capisce più da dove ha tratto la certezza con cui negare l’evidenza. Ma se resiste al vortice del disinganno, riscopre anche la verità del suo desiderio di autonomia e di libertà dal richiamo maschile. Può ritrovarlo nelle altre e ripartire per un cammino meno prestigioso del precedente – avere un’ideologia anche ridotta ai minimi termini è pur sempre un segno di potenza se non di potere – dove non esistono alleanze possibili, ma la Solitudine e uno scontare momento per momento, individualmente, nella propria vita l’idealizzazione dell’uomo, il bisogno del suo consenso, quegli entroterra che fanno parte della storia di ognuna e che non si logorano se non vivendoli e prendendone coscienza (…). Infatti di quel nuovo cammino non sappiamo quasi niente: se è una nuova illusione, se è percorribile, se è.}
E ancora:
(…) “{Ma allora questo femminismo cos’è? Ricerca dell’uomo, del rapporto con l’uomo dopo aver trovato se stesse. L’amica serve a trovare se stesse ma l’obiettivo è l’uomo (…). Non si scappa di lì (…). D’altra parte per me quella senza partner rappresentava la prova evidente di un distacco dall’uomo. Ma qui mi sbagliavo”}.
Lonzi, con l’acutezza che da sempre la contraddistingue, enuncia temi profondissimi con l’aria di dirci le cose più semplici di questo mondo, guidata com’è dalla consapevolezza di un felice sodalizio fra profondità e semplicità.
La solidarietà fra donne, istituzionalizzandosi, rischia di occultare pericolosamente ai loro stessi occhi il mito – che ciascuna inconsciamente conserva – dell’uomo.
Così, tra il desiderio del femminismo di smaltire questo mito-rifiuto e la reale capacità di attuarlo, ce ne corre – e per una buona ragione: lo smaltimento del mito dell’uomo segnerebbe la propria fine.
Il femminismo, insomma, può vivere solo a condizione di mantenere in vita, irrisolto, il “mito dell’uomo”. L’esperienza e la storia del femminismo, per come l’ho vissuta e la vivo, sembra confermare in pieno il destino tragico che la lungimiranza di Lonzi aveva individuato, previsto e diagnosticato come fatale:
{“La femminista è una figura drammatica che nega l’evidenza con l’avallo di un’altra femminista che a sua volta la nega finchè l’omertà in un punto della catena si rompe e nessuna capisce più da dove ha tratto la certezza con cui negare l’evidenza”.}
Ma di negazione in negazione, di rimozione in rimozione dell’evidenza, non si avanza – se non sintomaticamente – e nulla si costruisce in termini di desiderio di autonomia e di libertà femminile se non rinunciando al richiamo maschile fondato su ideologie, poteri e alleanze.
A nulla si approda senza quella solitudine e quella presa di coscienza individuale capace di riconoscere e di dissolvere, fino al definitivo logoramento, il bisogno dell’uomo e del suo consenso.
C’è dunque, per Lonzi, un nuovo e diverso cammino da fare, un cammino quasi del tutto ignoto che potrebbe essere un’ennesima illusione, che potrebbe essere non percorribile e della cui esistenza si può persino dubitare:
“{Infatti di quel nuovo cammino non sappiamo quasi niente: se è una nuova illusione, se è percorribile, se è”}.
Parole che, attraverso una sequenza di “se” dubitativi, contemplano tuttavia per il femminismo, un’avventura possibile dalla quale, bandita ogni certezza, la dimensione del rischio emerge nuda. Che cosa sappiamo oggi di quel nuovo cammino auspicato da Lonzi? Ne sappiamo davvero qualcosa di più? Siamo in grado di dire se è una nuova illusione, se è percorribile, se è?
{Ho scartato un pacco con tanti fogli d’imballaggio per arrivare poi alla constatazione di niente, di una molla interna che funziona così e non c’è da sganciarla perché allora finisce tutto.
Non sono triste perché Ester e Sara mi hanno accusata e fatto soffrire, ma perché la liberazione non apre su un Eden, su un’armonia, su una soluzione dei rapporti umani, ma sulla rinuncia e l’abbandono della speranza}. (Diario 14 Aprile 1974)
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