La rivoluzione possibile. Cura/lavoro: piacere e responsabilità del vivere.
Sabato 18 novembre, a Milano, nella sede dell’Unione Femminile Nazionale si è tenuto un seminario sulla complessa tematica cura/lavoro.
In mattinata la discussione si è incentrata sui nodi problematici, nel pomeriggio si sono tratteggiate alcune pratiche femministe.
Questa mia nota, soggettiva e non esaustiva del dibattito, darà conto dei pensieri che mi hanno colpita particolarmente.L’iniziativa era stata promossa da alcuni gruppi femministi (Libera Università delle Donne, Libreria delle Donne di Milano, Gruppo del mercoledì di Roma) che l’avevano preparata attraverso scritti e confronti anche nell’ambito dell’Agorà del Lavoro di Milano, una “piazza pensante” che da circa un anno tiene riunioni mensili pubbliche su questi e analoghi argomenti.
In mattinata la discussione si è incentrata sui nodi problematici, nel pomeriggio si sono tratteggiate alcune pratiche femministe.
Questa mia nota, soggettiva e non esaustiva del dibattito, darà conto dei pensieri che mi hanno colpita particolarmente.
Si è detto. È vero che la cura è attività, prestazione non remunerata né conteggiata nel PIL, sostegno del sistema capitalistico patriarcale, ma in essa si percepisce un’eccedenza: essa costruisce una dimensione che le donne non tralasciano per amore delle relazioni e per sostegno alla qualità del vivere; è un collante, non solo un fattore produttivo di ricchezza e di sapere.
_ Necessita, quindi, la costruzione di reti che le diano senso collettivo e di trasformazione.
Non va sottovalutato un aspetto: individualmente la cura è anche lo strumnto attraverso il quale ci si sente indispensabili e si esercita potere su chi ne dipende.
_ La trasformazione potrà avvenire solo attraverso la collocazione di questa attività (che è lavoro) dichiaratamente all’interno del sistema capitalistico, cui fornisce una robusta stampella, solo così potranno avviarsi conflitti visibili e collettivi, mettendo in tensione desiderio, comando, utilizzo della cura.
Forse questa dedizione alla cura potrebbe anche essere una leva femminile per allargare la consapevolezza dei propri desideri, autorizzando tutti a immaginare una diversa organizzazione del lavoro per una buona vita.
Una pratica collettiva potrebbe esercitarsi sul tema della libera rappresentazione dell’essere donna, ad esempio ponendo l’accento sulla problematica del tempo imposto e non scelto, piuttosto che sul salario, ciò che sembra appartenere particolarmente al pensiero critico delle donne sul lavoro.
_ Occorre attivare il conflitto iniziando col dire molti “no”.
Si può iniziare considerando la cura criticamente, dall’angolo visuale della libertà di scelta, scontrandosi con il sistema che chiede alle donne sempre maggiore dedizione per tappare falle sempre più ampie. Questo è il momento di acuire il conflitto, perché per molte ne va della sopravvivenza. E anche per il sistema.
Manca una rete sociale che affronti le problematiche connesse alla cura. L’impegno di una comunità dovrebbe essere quello di produrre beni relazionali, iniziando da progetti anche piccoli che tolgano alla cura l’aspetto di bene individuale, l’aspetto proprietario, per renderla, appunto, bene collettivo.
Bisognerebbe saper formulare un discorso che unisca donne e uomini rendendoli soggetti interi, non semplici risorse, oggetto di intervento a discrezione di soggetti sovra ordinati, cercando soluzioni che tengano conto di tutti i dati disponibili prodotti dalle nostre ricerche e dalle pratiche: dare noi un ordine, considerando che su questi problemi il silenzio maschile è profondo.
Si è anche ipotizzato di fissare a Milano, in occasione dell’EXPO 2015, la sede di Pechino più venti con un concorso di donne a livello globale.
In ogni caso il confronto continuerà, a Milano e a Roma sicuramente, probabilmente anche altrove perché la presenza di donne provenienti da altre città è stata significativa e molto interessata.
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