La scomodità delle denunce boicottate
Dopo il disastro nucleare in Giappone, torna fra noi il fantasma di Černobyl, “incidente” del 1986 le cui reali dimensioni sono ancora in parte censurate, nonostante la grande quantità di réportages
e testi che hanno continuato a trattare l’argomento. Quando uscì il denso libro-testimonianza della giornalista bielorussa {{Svetlana Aleksievic}}, {Preghiera per Cernobyl}, l’edizione russa venne
boicottata, e anche la traduzione italiana (Edizioni e/o 2002) non ebbe risonanza e fu presto dimenticata. Forse perché la ricostruzione puntuale degli avvenimenti e l’ampiezza dell’indagine tra le persone coinvolte ne facevano una materia troppo incandescente.
Tutto era stato avvelenato, non solo la terra e l’acqua, ma anche la salute e la vita delle persone, scriveva l’autrice: “Ho viaggiato, conversato, preso appunti. Queste donne e questi uomini sono stati i primi a vedere ciò che noi possiamo soltanto supporre…Più di una volta ho avuto l’impressione che in realtà io stessi annotando il futuro”.
{{Si è preferito dimenticare, non sapere}}. Nel 2001 fu condannato ad otto anni di carcere a Minsk, con un’accusa costruita ad arte, il giovane scienziato {{Yurij Bandazhevskij}}, che dall’Istituto di medicina nucleare
di Gomel, al confine dell’area contaminata, aveva lanciato l’allarme sulla pericolosità a lungo termine delle sostanze radioattive.
Mi chiedo dove sia oggi quest’uomo, e {{quanto scomode siano le verità che aveva denunciato.}}
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