La sentenza di Brescia
La corte d’Assise del Tribunale di Brescia ha emesso una sentenza assolutoria nei confronti di Antonio Gozzini che ha ucciso la moglie Cristina Maioli nel suo letto, colpendola sulla testa e finendola a coltellate.
Le motivazioni della sentenza, che cancella le precedenti che condannavano l’uomo prima a trenta e poi a sedici anni di detenzione, insultano la ragione e le leggi derivanti dalle convenzioni, in particolare quella di Istanbul, ratificate dall’Italia.
Sono motivazioni, la soverchiante tempesta passionale e la gelosia, che sostanzialmente ricalcano le antiche definizioni assolutorie previste dal codice Rocco, abolite ma purtroppo ancora presenti nella cultura non solo popolare del nostro paese. Risibile poi l’attribuzione dell’omicidio ad una patologia, quando la persona non è stata dichiarata prima incapace di autodeterminarsi nella vita quotidiana e quando, guarda caso, il nucleo della presunta patologia (delirio di gelosia) coinciderebbe con quello che è il nucleo dell’ideologia maschile improntata a gelosia e possesso della donna.
Non per la prima volta assistiamo al prevalere delle attenuanti sulle leggi, nei casi di femminicidio e di delitti perpetrati contro le donne, e non per la prima volta dobbiamo constatare come più delle leggi possano le discrezionalità dettate dalla cultura fortemente segnata dal principio del dominio degli uomini sulle donne.
Al centro di questa vicenda processuale c’è una questione che interroga il paese e le istituzioni e riguarda l’applicazione della Convenzione di Istanbul, soprattutto nei Tribunali, e la concreta azione di contrasto alla violenza maschile sulle donne a partire dai responsabili delle azioni preventive.
Si dice più volte che il cambiamento culturale è una delle questioni decisive per superare le condizioni che fanno della violenza un evento ricorrente nella vita di una maggioranza non realmente misurabile di donne, ragazze e bambine, e sappiamo che leggi e sentenze sono motori irrinunciabili di questo cambiamento, che postula l’interazione e il coinvolgimento di tutte le Istituzioni.
La nostra Regione, come tutte le Regioni, ha questa responsabilità, partendo dal pronunciamento di parole chiare sulla sentenza in questione, che rappresenta un nuovo e non primo pericoloso precedente alla smentita fattuale delle leggi vigenti.
Lo hanno fatto in questi giorni la presidente della commissione femminicidio Valeria Valente, il presidente vicario del Tribunale di Milano Fabio Roia e il Ministro della Giustizia, che ha per altro inviato ispettori al Tribunale di Brescia.
Nell’aprile del 2017, le donne di Napoli di fronte alle sentenze e l’operato quotidiano, del loro e di altri tribunali, che appunto richiamavano alla memoria leggi e attenuanti ormai desuete se non abolite, consegnarono simbolicamente e materialmente il testo della Convenzione di Istanbul a numerosi giudici che, alcuni con candore, ammisero di non averne nozione.
La cronaca, e in particolare quella attuale, ci parla di violenze perpetrate anche dopo le denunce ripetute e che segnano complicità intellettuali, purtroppo, nei luoghi significativi della politica e dell’informazione.
L’uccisione di una donna è il risultato di una somma di condizioni di incuria e della inapplicazione delle misure previste per legge, ma soprattutto rappresenta il luogo simbolico ed esemplare della reale condanna sociale su reati che restano in assoluto i meno perseguiti tra tutti.
La clemenza mostrata nei confronti di Antonio Gozzini suona come un presagio di impunità per tutti coloro che prima di uccidere ricattano, tormentato e feriscono le loro vittime per ricondurle al loro dominio.
Ricordiamo inoltre che in Campania per alcune delle donne uccise nel 2020 (Virginia Maliarenko, Rubina Chirico, Maria Adalgisa Nicolai, Maria Paola Gaglione, Maria Todesco, Brunella Cerbasi) presto o tardi i tribunali dovranno affrontare il compito di rendere visibile il valore della vita delle donne, visto che tra di loro ci sono vittime del cosiddetto “delitto di un folle”. Almeno due di queste donne erano state costrette convivere con i loro assassini, figli o mariti con disagi mentali accertati, affidati alla loro cura, il che chiama in causa direttamente una responsabilità degli enti locali.
Vogliamo pensare che questa brutta pagina italiana rappresenti un punto finale delle cattive pratiche processuali che vedono le donne che denunciano sottovalutate, non credute, costrette a condividere anche i figli con i loro aguzzini in nome della cosiddetta bigenitorialità. Noi donne dentro e fuori delle istituzioni condanniamo ogni giustificazione e revisionismo nel contrasto alla violenza contro le donne e sollecitiamo l’urgente aggiornamento degli operatori in ambito giudiziario.
UDI di Napoli, Associazione Salute donna, Arcidonna Napoli, Cooperativa Eva, Le Kassandre, Donne Insieme, Protocollo Napoli