L’ARTE E IL TEATRO COME CAMBIAMENTO SOCIALE E PERSONALE – Intervista a ILARIA OLIMPICO del progetto TheAlbero
TheAlbero è un collettivo artistico costituito dal 2012 da Ilaria Olimpico e Ury Noy Meir. La scelta del nome viene dalla connessione simbolica dell’albero e il The di Theatre. Quelle di Ilaria e Ury sono due esperienze che si intrecciano nella vita professionale e personale, raccogliendo nel progetto ciò che è il loro portato nell’ambito artistico e sociale. In questo progetto vengono messe insieme un po’ di metodologie diverse, Ury porta il Teatro dell’Oppresso, il Social Theatre e tanto altro, anche Ilaria porta il Teatro dell’Oppresso, Teatro danza e narrazione partecipata.
Nell’intervista che segue Ilaria Olimpico ha raccontato di come, tramite queste metodologie, l’arte venga messa al servizio del cambiamento sociale e personale, diventando strumento per la trasformazione.
Ilaria, come sei arrivata a questa esperienza, qual è il tuo percorso?
Vengo da una formazione in Scienze Internazionali e Diplomatiche, in particolare ho seguito un percorso soprattutto sul mondo islamico-arabo. All’inizio mi sono occupata di cooperazione internazionale però con tanti dubbi, da dentro ci si accorge di tutte la contraddizioni e le incoerenze. Piano piano mi sono spostata verso l’educazione non formale e ho deciso di lasciare il settore cooperazione dopo un viaggio in Libano. È rimasta questa forte fascinazione per il Medio oriente, sono stata anche in Siria dove ho approfondito lo studio dell’arabo che avevo già iniziato all’università e sento che da qualche parte ci sia qualche radice. Questa connessione è presente anche nella formazione che faccio, dove mi concentro tanto sull’intercultura. I miei studi hanno aperto a tutta una serie di riflessioni, mi hanno aperto delle porte del pensiero e tutto è poi fluito nel lavoro di educazione non formale. In seguito ho approfondito e sperimentato altri modi di imparare che non sono quelli convenzionali-teorici dell’università, molto del pensiero è nato dalla conoscenza che passa attraverso il corpo. Il teatro all’inizio era solo passione , qualcosa per me che via via si è sempre più avvicinata all’ambito della conoscenza, conoscere attraverso il corpo e riportare poi questa conoscenza “mentale” come conoscenza corporea, insita nel corpo. Quello che faccio adesso è unire il teatro e l’intercultura, la conoscenza dell’altro, le rappresentazioni che abbiamo dell’altro, tutto questo sperimentato attraverso il corpo. Ciò che è importante è rendersi conto di come abbiamo delle immagini, delle rappresentazioni dell’altro, del sé. Nella relazione interculturale quello che conta è la relazione stessa, cosa che passa in secondo piano quando ci vengono forniti gli strumenti e le informazioni per guardare all’intercultura .Il discorso sull’intercultura, in un’impostazione classica, si basa solo sulla conoscenza degli altri popoli e delle altre culture non tenendo conto di quanto in realtà conoscendo l’altro entri in gioco il nostro mondo insieme a quello dell’altro. Questa importante scoperta avviene attraverso il teatro e particolari esercizi teatrali di gesto e movimento che ci portano ad alcune consapevolezze : partiamo da un’esperienza per poi riflettere e acquisire conoscenza. Questo è il lavoro degli ultimi anni, quello che porto in TheAlbero e precedentemente nell’Associazione InterculturandoRoma, di cui sono stata vicepresidente per qualche tempo. In questa realtà associativa ho lavorato con altre donne intrecciando diverse metodologie: da quella frontale a quella teatrale a quella della scrittura autobiografica, il tutto con l’idea di lavorare sull’intercultura come relazione.
Spesso nel tuo lavoro affronti le tematiche del femminile, cosa ci puoi dire di quelle che definisci le “ferite al femminile” e del rapporto con la Madre Terra?
Lo scorso anno è nato un progetto che si chiama il “nome della Madre”, nel frattempo due anni fa io sono diventata madre e questa storia personale inevitabilmente, come tutte le cose, è entrata nell’ambito della mia ricerca professionale. Credo che proprio dalla riappropriazione del corpo nasca il bisogno di riappropriazione del legame con la terra, riappropriarsi del valore del corpo come corpo sensiente e ritrovarsi nel radicamento e nella riconnessione con la terra, da qui il “nome della madre” che è un progetto di ricerca che ho portato in giro sia in Italia che nel resto d’Europa insieme a Ury. Io in particolare ho lavorato con gruppi di sole donne, perché si crea una particolare energia, spesso mi è stato chiesto del perché di questo lavoro con sole donne, tanti uomini mi chiedono spiegazioni su questa precisa scelta: rispondo semplicemente che è dettata dalla consapevolezza della diversità , una diversità e uno spazio tutto per noi che rivendichiamo e dove possiamo metterci a nudo. Quando ho lavorato con gruppi di sole donne sulla riconnessione e la ferita che c’era nella natura, ci sono state alcune di esse che mi hanno detto di aver sentito la “ferita del grembo”. Per arrivare a questo si fa prima tutto un lavoro di esercizi teatrali, di visualizzazione guidata di riconnessione con se stesse ed il proprio sé, con il corpo, una riconnessione con la terra. Dopo aver provato questa gratitudine per se stesse e per la terra si può attraversare la ferita, anche in questo mi aiutano alcuni esercizi riadattati che vengono dal teatro dell’oppresso. C’è un passaggio attraverso questa ferita che si concentra sul perché nella nostra società ci siamo allontanate dalla terra e dal sentire la terra come madre. Durante questo lavoro, si prova veramente a “sentire” cosa significhi passare dalla terra come qualcosa di vitale e vivo a qualcosa che viene sfruttato. Attraverso questo processo, coadiuvato dalla pratica del teatro, si trova la “medicina” e nascono delle rappresentazioni rituali per ritrovare/ ricreare questo legame, per risanare la ferita. Porto avanti questo percorso in vari laboratori, due dei quali si sono conclusi quest’anno a Napoli e Roma e hanno come titolo: “ferite di donne, medicine di donne”. Sempre su questa spirale, cioè lo schema che va dalla gratitudine e permette di attraversare la ferita andando avanti con occhi nuovi, ci sarà a Roma l’8 maggio al Parco della Caffarella un laboratorio “Ritorno alla Terra” non a caso in mezzo alla natura.
Quando parli di “medicina” cosa intendi in particolare e come ha a che fare con il teatro?
Quella di cui parlo non è certamente la medicina allopatica che ha la pretesa di risolvere tutto, ma una medicina simbolica. Abbiamo un potere incredibile nell’immaginazione, nel simbolico e nel rituale, mi viene in mente il fenomeno del tarantismo per esempio, che altro non è che un rituale di guarigione e di medicina che riguarda soprattutto le donne. A proposito di questo, credo nell’arte come pratica per rigenerarsi, senza usare il termine guarigione, un termine abusato dai molti e ancora troppo ambiguo perché usato nella nostra società in maniera manipolativa. Il fondatore del Teatro dell’Oppresso, Boal, dice :“tutti possono fare gli attori, anche gli attori” rivendicando con queste parole come il teatro e l’arte più in generale siano qualcosa che appartiene a tutte/i , da qui l’importanza di riappropriarsi dell’arte come pratica quotidiana per esprimerci, rigenerarci, per rigenerare il legame tra le persone della comunità. Perciò la rilevanza del teatro, che nell’accezione del teatro partecipativo, diventa strumento per il cambiamento sociale, ampliando le capacità e possibilità di cambiamento. Questo è quello che vuole fare il Teatro Forum: si presenta una scena problematica e si invita il pubblico a entrare in scena e provare il cambiamento, la pratica artistica come trasformazione di sé può essere uno strumento potente di trasformazione di tutto il tessuto sociale, tutto è connesso e necessitiamo di un cambio paradigmatico. A partire da queste riflessioni non posso non citare Rian Eisler la cui visione che parla di modelli, uno di dominato-dominatore l’altro di partnership, usando quest’ultimo per parlare di relazioni tra umani e natura, uomini e donne, tra gruppi. La sua visione è una visione che io porto con me e che ha segnato il mio schema e il mio percorso, il mio cambio paradigmatico. Quando faccio un laboratorio di intercultura faccio anche un laboratorio che riguarda le questioni di genere e viceversa. Se ristabilisco un modello di reciprocità tra uomo e donne questo influenzerà le relazioni nella comunità e nella natura, se c’è un rapporto di dominazione tra gli individui questo si riflette nella comunità e tra gruppi e crea gerarchie tra bianco e nero, uomo e donna , uomo e natura etc..
Cosa Puoi dirmi del Progetto Teatro Forum in Senegal?
E’ un progetto della rete Teatro dell’Oppresso in Senegal che abbiamo deciso di sostenere. Ury Noy Meier vi ha partecipato e al suo rientro, dopo l’esperienza, abbiamo ragionato rispetto a quanto emerso sulle questioni di genere. Quello che tengo a sottolineare è la dovuta attenzione nel non diventare portatori di un modello giusto, che vede l’Occidente come patria del diritti umani e che si può permettere di fare da maestro, è una visione che stona con la mia. Per quanto riguarda le questioni di genere, quello che dico quando faccio formazione è di riportare tutto in maniera trasversale, è facile rigettare tutto sull’altra/o e in questo momento rimandare il modello sessista sulle società islamiche. Dovremmo chiederci anche noi cosa rimane del modello sessista nella nostra società e fare dei paralleli, una ricerca insieme. Ultimamente partecipando a una ricerca, ho sentito la necessità di partire da Fatima Mernissi e le “sultane dimenticate” perché c’è pericolo di una islamofobia crescente in questo momento storico, ed è molto facile dire che le donne musulmane sono oppresse trovando in questo una sorta di giustificazione razzista. Mernissi nel suo scritto si chiede quale sia l’harem dell’occidente, forse la taglia 42. Nelle formazioni che conduco, spesso si parla di oppressione della donna e io non dimentico di chiedere qual è lo spazio in cui noi siamo confinate, magari è il tempo, un tempo determinato che ci chiede di apparire in tv solo fino ai 30 anni, forse è questo il velo che impongono a noi. L’altra è lo specchio in cui possiamo vedere noi e ritrovare analogie e differenze, come dice Paolo Feire “nessuno libera nessuno, ci si libera insieme in solidarietà”.
Red. Della particolare esperienza del Teatro Forum in Senegal ha raccontato Ury Noy Meir, che si è occupato di condurre la formazione per persone che fanno parte della rete del TdO ,proprio in Senegal nel novembre 2015. Ci ha riferito di uno scambio molto importante ,un’esperienza che ha visto una raccolta fondi per un minifestival di Teatro Forum nel sud del Senegal dove si presentava una situazione di blanda tensione Dall’esperienza di Ury abbiamo appreso quali sono le ripercussioni sull’universo femminile, un punto molto interessante. C’è un lavoro dei gruppi teatro dell’oppresso sulla questione femminile, recentemente è stato fatto un forum sulla contraccezione femminile, portandolo in giro per sensibilizzare le persone. Nel gruppo senegalese in cui Ury ha fatto formazione c’erano solo tre donne, una di esse ha intrapreso una formazione da facilitatrice (joker) nel Teatro dell’Oppresso. Lavorando con questi strumenti in tutto il mondo si ritorna molto sulle donne, perché una delle cose più universali che ritorna come tematica comune è l’oppressione sulle donne. Ury ha sottolineato dopo questa formazione, l’importanza di trovare un modo di avere in seguito più presenza femminile. TheAlbero ha devoluto parte dei fondi raccolti durante un evento culturale al progetto in Senegal.
Roma, 26/04/2016
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