Lasciamo che la storia delle donne ci parli: riflessioni intorno alla pandemia
Ci siamo fermate. Blindate in casa da sole o in compagnia, magari con un violento che diventa ancora più violento, o fuori a rischiare la vita perché non si può fermare una attività di pubblica utilità, né si può restare senza una lira e allora il conflitto tra salute e occupazione si risolve semplicemente, drammaticamente, uscendo di casa a fare il proprio lavoro. C’è invece chi resta al chiuso a pensare con angoscia al domani, senza più lavoro e chissà fino a quando; c’è chi è in attesa di partorire o sta allattando e misura su di sé la differenza che esiste nell’avere un corpo fertile al tempo del coronavirus. E i/le migranti dove saranno e quale protezione e assistenza saranno loro assicurate? Il distanziamento sociale, va sottolineato, non è solo sociale, ma anche familiare con tutti i disagi che questo comporta. Sappiamo immaginare cosa vuol dire restare sequestrate in casa e temere la morte di una persona cara senza poterla abbracciare, dover piangere chi se ne è andat* senza una carezza. Siamo costrette a vivere giorno dopo giorno con il peso sul cuore per chi la casa non ce l’ha e rimane espost* alla minaccia di un virus letale e onnipresente. Non mancano, per fortuna risvolti positivi come i tanti gesti di solidarietà, la messa in quarantena di alcuni stereotipi tra cui quelli sui meridionali, il primato della vita sull’economia, della competenza sulle “chiacchiere” politiche. La riscoperta della vita nella sua nuda materialità ci sta inoltre ricordando che quello che più conta nell’abitare questo mondo sono le relazioni, la capacità di toccare con mano una interdipendenza molteplice, necessaria non solo per sopravvivere, ma in primo luogo per potersi riconoscere umani e umane nella propria e altrui fragilità, finitezza, preziosità. La pandemia sta infatti mettendo prepotentemente al centro la cura come valore universale e competenza imprescindibile per chiunque voglia governare bene una comunità, piccola o grande che sia. Questo virus, mentre sembra azzerare le differenze non guardando in faccia a nessun*, pone paradossalmente e nettamente in luce, come problemi da affrontare, tutte quelle diseguaglianze che i sistemi economici e politici hanno determinato tra persone e tra popoli. Stiamo vivendo l’esperienza inedita dell’assenza e del silenzio, condizione esistenziale surreale, indicibile forse nel suo significato più profondo. Da questo tempo fuori tempo però per la prima volta è possibile, come sostengono alcun*, provare a guardare senza paraocchi la vita di prima e immaginare un futuro migliore. Approfittiamone. Tante le parole già dette o scritte, ripetitive come queste mie nel loro dire il dolore per i troppo morti, l’angoscia, il desiderio di uscire, abbracciare, baciare, darsi la mano. Ma c’è qualcosa che resta fuori. Una genealogia femminile vitale affolla la mia solitudine abitativa, e mi spinge a capire, a trovare le parole giuste, necessarie. E’ un deposito lasciato dalla storiografia come pezza inservibile nello sgabuzzino della memoria storica dove al contrario si trovano lenti capaci di vedere molto lontano, alle radici avvelenate della civiltà, quando la parte maschile dell’umanità autoproclamatasi superiore, unica misura di tutte le cose, si è trasformata nel primo, potente virus patogeno, presente ovunque fin dentro le coscienze: il macho-virus, contro cui noi donne stiamo lottando da più di due secoli. E mentre il mio corpo resta prigioniero di spazi ristretti, la mente corre, i neuroni restano attivi come non mai e prendono a piene mani da questa storia di donne saldamente situata nel punto da cui guardo. Scelgo solo alcuni frammenti, tentando una riflessione che tenga insieme entrambi i virus e i nessi esistenti tra loro.
Olympe de Gouges, autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in cui lucidamente svela sia la misoginia delle leggi che del linguaggio, ghigliottinata per questo nel 1793, in piena Rivoluzione Francese propose la “tassa sulla ricchezza” al fine di accorciare le distanze tra chi aveva troppo e chi niente. Le emancipazioniste dell’800 si attivarono per gettare le basi per lo stato sociale e costruire forme di sussidiarietà e di solidarietà. Nel secondo dopoguerra, di fronte alla miseria in cui versava l’infanzia tante donne con le loro associazioni hanno salvato da morte per denutrizione e malattie migliaia di bambin*. Nel loro percorso di emancipazione in nome dell’uguaglianza si posero come obiettivo quello di rendere materno lo Stato attraverso una rete di servizi sociali tra cui scuola pubblica gratuita per tutt*, asili nido, consultori, case popolari. In Italia dal ‘78 abbiamo grazie ad una donna, Tina Anselmi, il servizio sanitario nazionale a cui io, anziana, devo molto, nonostante i tagli, le privatizzazioni, le ruberie, i ritardi che oggi per merito del coronavirus appaiono in tutta la loro scandalosa e colpevole evidenza. Avere cura, prendersi cura, praticare la solidarietà sociale sono alcune delle cose che la storia delle donne ci consegna come cuore pulsante della politica. Venga pure il reddito di emergenza di cui si parla, circoscritto al periodo della pandemia perciò non sufficiente a sanare emarginazione e indigenza strutturali per le quali sarebbe auspicabile un reddito di dignità. La dignità è termine che si lega alla relazione in quanto chiama in causa tutt* per la semplice ragione che ogni persona in povertà mette a nudo la mancanza di dignità di chi ha un reddito: se la dignità non è di tutti, si chiama privilegio.
In questi giorni due uomini, prima il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres e poi il Papa, hanno chiesto un cessate il fuoco globale per fermare tutte le guerre, ma nulla dicono sulle radici più oscure che dall’inizio della storia umana nutrono la guerra. Solo due anni dopo il massacro della seconda guerra mondiale l’Udi dovette mobilitarsi in difesa della pace contro la bomba atomica e gli esperimenti nucleari che si stavano facendo negli atolli del Pacifico: scrisse una petizione su cui raccolse tre milioni di firme che andò a consegnare a Ginevra, nella sede delle Nazioni Unite. Il vice segretario Benjamin Cohen che accolse la delegazione disse “Possano i popoli far sentire la loro voce direttamente e più sovente, e vadano i nostri ringraziamenti alle donne italiane, che sono state le prime ad adempiere a questa nobile e importante missione.” Una storia cancellata, come cancellate le reiterate richieste di convertire le spese militari in servizi sociali e il contrasto durissimo all’installazione della base missilistica di Comiso da parte degli Americani, un contrasto iniziato dall’Udi alla fine degli anni cinquanta e ripreso con forza dal femminismo nei primi anni ottanta quando si cercò inutilmente di far chiudere definitivamente la base. Da tanti anni noi donne stiamo lottando perché la guerra sia messa fuori dalla Storia, sappiamo che bisogna estirparne le radici, quelle radici che solo noi continuiamo a vedere e nominare: l’uso del potere come dominio e come violenza nei rapporti che gli uomini, prima che tra loro, intrattengono con le donne e tutti quei dispositivi simbolici e materiali che ne sono derivati. Una pace insomma da abitare, come dicevamo noi dell’Udi, abitare nella duplice valenza di averla come abito e come abitazione, luogo in cui vivere. Il coronavirus con il suo portato di morte e dolore sta facendo apparire assurda e impraticabile ogni guerra. Diciamolo. Torniamo a chiedere un taglio drastico delle spese militari, oggi non solo una scelta etica ma una necessità di fronte agli anni difficili che ci aspettano, con la crisi economica che sta arrivando, la perdita di milioni posti di lavoro, una povertà che rischia di diventare sempre più drammatica, globale, esplosiva.
Un’altra riflessione a cui obbliga questa pandemia riguarda la Scienza e il suo fondamento epistemologico tutto dentro la logica maschile. Molto si è ragionato sul rapporto tra le donne e la scienza e sono emerse alcune figure emblematiche come Barbara Mc Clintock, biologa molecolare, che nel suo lavoro ci ha mostrato un modo differente di conoscere, dove è necessario “lasciare che la materia ti parli”. Attraverso lo studio della pianta del mais vista come soggetto parlante, le divennero visibili le componenti interne dei cromosomi e in questo modo scoprì la complessità della cellula che per la maggior parte dei biologi del suo tempo era un meccanismo chimico relativamente semplice. La sua ricerca produsse la visione di un DNA in delicata interazione con l’ambiente cellulare. Nell’86, di fronte al disastro della centrale nucleare di Cernobyl, il movimento femminista sferrò una critica radicale all’idea maschile di sviluppo e mostrò la pericolosità di una Scienza priva del concetto di limite, dimentica dei corpi, della loro finitezza e fragilità. Si lanciò un patto di coscienza tra donne che entusiasmò molte, ma ebbe tempi troppo brevi. Oggi forse sarebbe il caso di riprendere in mano quel patto con nuove consapevolezze e con possibili aperture. Di fronte all’atteggiamento di rapina delle risorse naturali, alla crudeltà degli allevamenti intensivi, alla stupidità delle deforestazioni, dentro un modello di sviluppo e di consumo che ci ha sottratto soggettività e cittadinanza, nessuna e nessuno di noi può dirsi innocente. Teniamolo a mente.
Utilizziamo questi giorni fuori dall’ordinario per riflettere insieme, lasciando che il percorso storico delle donne ci parli, interagisca con la nostra quotidiana esperienza e ci aiuti nel difficile compito di ridefinire noi stesse, le relazioni con gli altri, il mondo in cui vogliamo vivere.
Roma, 31 marzo 2020 – (pubblicato su Noi Donne)