L’Atlante delle donne: un’occasione o una contraddizione?
Stefania Vulterini (Lesconfinate della Casa Internazionale delle donne, Roma) discute dell’Atlante di Joni Seager in un dialogo/intervista con Rachele Borghi – professora di Geografia all’Università Sorbona di Parigi.
La Casa internazionale delle donne, Il Giardino dei Ciliegi di Firenze e l’Associazione Evelina de Magistris di Livorno hanno organizzato il 28 gennaio, in rete con attiviste femministe, transfemministe, queer e lesbofemministe un incontro via zoom con la geografa femminista Joni Seager, autrice de L’Atlante delle donne la cui ultima edizione, la quinta, fresca di stampa (ADD Editore 2020), è stata tradotta in italiano da Florencia Di Stefano-Abichain.
Joni Seager è geografa, attivista femminista, esperta in geopolitica, ex preside della Facoltà di Studi Ambientali della York University di Toronto, oggi docente di Global Studies all’Università Bentley di Boston e consulente presso le Nazioni Unite su progetti di politica di genere e ambientale.
L’edizione aggiornata del suo Atlante realizza la più completa, dettagliata, colorata mappatura del mondo dal punto di vista di genere, nelle sue articolazioni: lavoro, salute, educazione, disuguaglianze, matrimoni delle minori, matrimoni gay, maternità, sessualità, contraccezione, aborto, alfabetizzazione, ricchezza, povertà, potere, diritti.
L’Autrice individua il primo valore politico dell’opera nell’essere “una mappa della realtà”, ritenendo che mappare sia un modo molto democratico di guardare alla realtà perché immediatamente accessibile a persone meno esperte.
Osservando le mappe, i dati, i diversi colori, si possono trovare immediatamente risposte alle domande. L’infografica, infatti, è stata pensata e creata per rendere accessibili tutti i dati a chiunque e per Joni, da femminista, questo è già creare una dimensione politica.
Rispetto alla prima edizione (1986), tradotta in molte lingue, l’attuale descrive a 360° la situazione delle donne nel mondo; la disparità di genere; la disparità nella disparità, esistendo un’ulteriore differenza legata, ad esempio, alla percezione del colore della pelle che, se non è bianca, fa aumentare il gap e le disparità e le difficoltà anche rispetto all’accesso alle risorse.
A partire soprattutto dagli anni ’80 si registra un’esplosione dei dati sulla situazione delle donne, nel mondo, messi a disposizione da enti, istituzioni e associazioni mainstream che si occupano delle statistiche sul tema. L’ultima edizione dell’Atlante ne risulta enormemente arricchita pur rimanendo carente la produzione dei dati e nascoste molte informazioni, ed è su questi vuoti che l’Autrice e il suo Atlante intervengono poiché la ricerca e le statistiche mainstream ruotano (ancora) attorno alla diade produzionismo/riproduzionismo; si concentrano su uguaglianza e non equità rimanendo soprattutto legate al sistema di pensiero binario donne-uomini.
Per Joni Seager, parlare di produzione, da un punto di vista femminista, significa confrontarsi con “tutto l’altro lavoro delle donne”. I dati disponibili riguardano, infatti, “il lavoro strutturato e la forza lavoro femminile formale, ufficiale”, ma da un punto di vista femminista è necessario raffrontarsi con tutto “l’altro lavoro delle donne, quello non dipendente, non strutturato ma che è lavoro non pagato o mal pagato e svalorizzato”, guardando a tutti gli ambiti del lavoro non riconosciuto svolto dalle donne.
Rispetto al riproduzionismo, invece, si hanno molti dati quantitativi ma nessuna notizia e dati insufficienti sui diritti riproduttivi delle donne; sulle legislazioni in materia di aborto e le politiche del corpo; sui matrimoni delle minori e sui matrimoni gay.
L’obiettivo dell’Atlante delle donne è restituire, con sguardo femminista, una mappatura completa della vita delle donne. Ma proprio perché non esiste un solo punto di vista femminista e ci sono visioni e posizionamenti diversi, ho chiesto a Rachele Borghi – professora di Geografia all’Università Sorbona di Parigi, geografa queer e transfemminista – un approfondimento che ne evidenzi anche le problematicità. Il lavoro di Borghi s’incentra sulla decostruzione delle norme dominanti che si materializzano nei luoghi e sulla contaminazione degli spazi attraverso i corpi dissidenti e militanti. Tra le sue pubblicazioni: Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo (Meltemi , 2020).
Al meeting del 28 gennaio sull’Atlante delle donne sono intervenute: Maria Nadotti, Liana Borghi, Bianca Pomeranzi, Rachele Borghi, Letizia del Bubba, Pamela Marelli, Elena Coco.
L’incontro – coordinato da Paola Fazzini e con la traduzione in consecutiva di Marina Astrologo – è registrato sulla pagina fb della Casa Internazionale delle donne (Roma).
A seguire: In dialogo con Rachele Borghi. Riflessioni sparse sugli atlanti in generale e su L’Atlante di Seager in particolare.
Per prima cosa, Borghi ha voluto chiarire e mettere in discussione vari punti e affermazioni, a cominciare “…dalla parola mappa che è una traduzione dall’Inglese. In italiano, il termine indica una rappresentazione a larga scala. Quelle dell’Atlante sono carte, non mappe.”
D. Qual è la distinzione per una geografa femminista?
R. Dire (come dice Seager), che ‘l’Atlante è una mappa della realtà’ è fare una grande confusione: la carta è una rappresentazione della realtà, non la realtà e come tale riflette un punto di vista, uno sguardo verso il mondo. L’errore è pensare che attraverso una carta si possa leggere la realtà. La carta va letta come un testo, quindi inserita in un tempo e in un contesto; va analizzata come un testo di letteratura tenendo in conto chi la fa e quale sia il suo posizionamento. Ritenere una carta ‘obiettiva’ e ‘neutrale’, cancella il suo essere una ‘rappresentazione’, il prodotto di un sapere situato.
D. Puoi riprendere i punti in cui durante l’incontro hai messo in discussione prima il supporto atlante in sé e poi L’ Atlante delle donne?
R. L’Atlante delle donne non fa eccezione: è prodotto a partire da dati che sono anch’essi situati e da una persona che ha degli episteme di riferimento e un approccio aderente ad alcune correnti di pensiero. È evidente che la cartografa sia una femminista bianca, nordamericana, lesbica, la cui epistemologia femminista di riferimento è il femminismo della seconda ondata ‘bianco-nordamericano’ della differenza, abolizionista e terzomondista.
Dire che l’Atlante è opera femminista perché scritto da una femminista significa, nel migliore dei casi, una semplificazione e, nel peggiore, una delegittimazione di altri femminismi, di altri episteme di riferimento nel femminismo, di altri approcci e visioni non meno legittime.
Il femminismo di quest’Atlante è quello dominante, legittimato dalla presenza di molte delle sue esponenti nei centri della produzione del potere, nelle Università e non solo, apparendo perciò come ‘il femminismo’ mentre è un filone riferito a un quadro concettuale di pensiero ben preciso, che veicola quindi valori e priorità diverse.
D. Nel meeting, Joni Seager ha rivendicato il valore politico, in sé, della pratica democratica delle mappature. Cosa le contesti, in proposito?
R. Non è vero che ‘mappare’ sia un modo molto democratico di guardare la realtà in quanto immediatamente accessibile alle non esperte’. Proprio l’apparente semplicità di lettura lo rende uno strumento pericoloso che chiede una necessaria presa di responsabilità. Un atlante, in generale, semplifica e soprattutto così come mostra, nasconde. Davanti a una carta non bisogna guardare solo a ‘ciò che c’è’ ma anche (e a volte soprattutto) a quello che ‘non c’è’; a quelli che sono chiamati silenzi della carta. Per capirla, bisogna immaginarla come un tappeto di cui si ricostruisce la fattura guardando ai nodi sul rovescio; soltanto così si può leggerlo, interpretarne il processo creativo, non rimanere a ‘ciò che vedi’. Ogni carta si basa sulla vista; infatti, la codificazione delle carte con le proiezioni e le regole correnti è il frutto, come sempre, del XIX secolo quando gli (e dico gli perché erano maschi), occidentali bianchi decisero cosa fosse un sapere e cosa non lo fosse, secondo i metodi riconosciuti da loro. Ecco quindi che, per fare una carta, si devono applicare certe regole, certi ‘metodi’ che, come per magia, sono quelli voluti da quelle stesse persone. Ecco quindi che tutte le rappresentazioni cartografiche prodotte fuori dall’Europa e dall’Occidente (in generale), furono e sono definite ‘non scientifiche’ e ‘sbagliate’ (es. cartografia araba con il sud in alto e il nord in basso).
La proiezione, per eccellenza, è quella di Gerardo Mercatore (ndr. matematico, astronomo e cartografo fiammingo del XVI° sec.), con l’Europa al centro, col rispetto delle distanze ma non delle proporzioni. Ci siamo così convinte che stando in Europa si è al centro del mondo e che essa occupi un grande posto, nel globo. Proviamo a guardare la carta di Peters (XX sec.) e diciamoci se ne riceviamo la stessa impressione…comunque, essendo la cartografia una scienza formatasi nella modernità ed essendo il metodo empirico quello, per eccellenza, della modernità, la vista è ciò che più conta. Ne deriva che ciò che vedi esiste ed è vero, compreso quello riportato su una carta. Per questo non possiamo approcciarci alle carte senza riflettere sulla produzione del sapere moderno – e la modernità quale elemento fondamentale della ‘colonialità’ del nostro presente.
Nel dialogo, emergono altre contraddizioni dell’Atlante delle donne, dovute all’impostazione e all’appartenenza di Joni Seager alla già ricordata e determinata visione femminista in cui Rachele Borghi rintraccia “l’approccio dominante alle questioni di genere e soprattutto all’idea dell’esistenza del ‘soggetto donna’ (sottinteso cisgenere); appartenenza che non viene detta, mentre la pratica politica femminista di Rachele ritiene necessario posizionarsi, perché le persone che ti leggono possano sapere da dove parte quel sapere, ovvero da cosa è formato il tuo corpo, quale luogo di enunciazione.”
Borghi analizza, quasi pagina per pagina, detti e non detti dell’Autrice soffermandosi sul “modo omogeneizzante di includere, ad esempio, le soggettività LBGT”, e chiedendosi quale sia “l’interesse di dare visibilità alle persone LGBT se poi le si posiziona tutte insieme in opposizione alle etero e comunque celando le infinite maniere di essere non etero (normata)?
Decidere cosa mettere o non mettere in un atlante non è mai neutro: “Se decidiamo di mettere ciò che riguarda ‘la maggioranza’, cadiamo nella stessa trappola da cui tentiamo di uscire, pur essendocela fabbricata noi”, poiché la carente o nulla visibilità significa che (all’autrice o all’autore), il soggetto non interessa.
“Per questo l’Atlante è un problema, perché obbliga a un esercizio di semplificazione, perciò di esclusione, che si paga a caro prezzo!” sottolinea Borghi, esaminando le ‘zone di crisi ‘ di un’opera che,“…solo nominandole per tali, già ‘nasconde’ e svela da ‘dove’ si guarda. (…) Nominandole,si vuole parlare in realtà del ‘sud globale’. A me ricorda più la visione opprimente e razzista di Huntington dello scontro di civiltà piuttosto che una rappresentazione impoterante inclusiva femminista. Piuttosto, dà seguito al festival delle oppressioni. Mi pare chiaro che la denuncia sia il leitmotiv, l’entrée diciamo, con cui è stato concepito questo lavoro; allora, se sei affezionata all’atlante e ne vuoi fare uno, non potresti farmi una mappatura, una cartografia di tutte le pratiche femministe, i gruppi, le azioni, le questioni che lancino una dinamica di diffusione rizomatica delle pratiche impoteranti? Invece di parlare di ‘zone di crisi’, si potrebbe parlare ‘d’interstizi di resistenza’, poiché, da femministe, dovremmo sapere che è negli interstizi che succedono le cose…”.
Ulteriori osservazioni sull’opera di Joni Seager, andando solo per titoli, riguardano:
– le colpevolizzazioni sul corpo delle donne “…che viene criticato quando ce ne si riappropria tramite l’estetica, o vittimizzato. Il corpo autodeterminato e riappropriato come mi pare – quindi anche con la chirurgia estetica se lo decido io e lo dovete accettare – non merita più spazio?”
– l’approccio abolizionista “…evidente quando parla di pornografia e di prostituzione. In caso ci fossero dubbi, la carta successiva parla della tratta andando a confermare la sovrapposizione tra prostituzione, sex work e tratta.”
– la prospettiva terzomondista “…che è rischiosa perché per me alimenta in particolare l’islamofobia. Non mi stupirei che il posizionamento di J. Seager fosse il femminismo universalista anti-velo.”
– l’assenza di rimandi al dibattito sulla natalità e la decrescita, il no-futuro, centrale nell’opera ricordata di Angela Balzano: Per farla finita con la famiglia (Meltemi 2021).
Conclude Borghi: “Nelle pagine che riguardano le donne al potere, qual è il confine con il femonazionalismo? Con la critica del capitalismo?“ ( v. cit. Decolonialità e privilegio.) e, dichiara: “Non è il potere cui aspira il femminismo che piace a me. Non può esserci giustizia se non usciamo dal potere. Quindi che ci siano le donne al potere, per esempio, delle imprese poco impatterà sul cambiamento del mondo.”
Ringraziamo Rachele Borghi, auspicando approfondimenti sui temi emersi o taciuti nell’Atlante su cui manteniamo l’attenzione anche rispetto ad altre letture.