Lavinia Fontana e Raffaello. Turbinio di voli
Turbinio di voli con ali d’angelo nella Chiesa di Santa Maria della Pace a Roma da poco restaurata. Si barcolla un po’… Non si sa dove girare lo sguardo! Verso le quattro Sibille? La Sibilla Cumana, la Sibilla Persica, la Sibilla Tiburtina, la Sibilla Frigia affrescate da Raffaello sui pennacchi dell’arco della cappella Chigi oppure verso l’altare dove troneggia San Giovanni Evangelista e l’Angelo del Cavalier d’Arpino, oppure correre subito da Orazio Gentileschi, padre di Artemisia, e guardare a lungo verso la tela che rappresenta il Battesimo di Gesù? C’è un angelo e mi sembra… devo andare subito a verificare la data del quadro. È il 1607. Non potrebbe essere Artemisia l’angelo a destra? Artemisia aveva allora 14 anni e sappiamo che da piccola posava spesso in veste di angelo per suo padre. Qui l’angelo è un’adolescente chissà, forse, non so… Di Orazio c’è anche la Maria Maddalena che constata la tomba di Gesù vuota. Dunque è risorto? Sì, è proprio risorto.
Nei pilastri dell’ingresso della cappella “appaiono” in tutto il loro fulgore la Santa Cecilia e la Santa Caterina dipinte da Lavinia Fontana.
Rivolto a Lavinia Fontana, Giulio Cesare Croce inneggiava: “Gran stupore delle genti e di natura Lavinia Fontana alta pittrice unica al mondo come la Fenice”.
Dalla lettura degli atti di matrimonio di Lavinia la pittrice viene definita “di onestissima vita e belli costumi” e le si predice “un gran profitto nella pittura sicché darà consolazione ai parenti e soddisfazione grande e chi l’avrà a godere”.
A fare queste considerazioni è Severo Zappi, suo futuro suocero, in una lettera alla moglie e al figlio Gianpaolo promesso sposo, pittore anch’egli, datata febbraio 1577. Poco dopo fiori d’arancio per Lavinia che col suo lavoro assicurerà alla famiglia un più che decoroso sostentamento mettendo il marito a far da sartore alle sue figure!
Ebbene pare che Lavinia tra il 1578 e il 1595 abbia avuto undici gravidanze. Le rimasero, però, solo tre figli.
Altre donne della sua epoca si affacciano nel mondo della pittura: Sofonisba Anguissola, Elisabetta Sirani e naturalmente Artemisia Gentileschi. Erano le dee e le allegorie della mitologia classica a contendersi il palcoscenico nella varietà di stili appresi dai rispettivi padri. È infatti la favola mitologica a proiettare nella scena il richiamo di lontananze incantate, di epoche e società remote, di portamenti sublimi, l’anelito di virtù, insomma quella nostalgia dell’impossibile che è il timbro sentimentale del Seicento.
Piena di civetteria è la nuda Minerva di Lavinia alla Galleria Borghese di Roma nell’atto di adornarsi con finissimi veli; lo scudo riposa a terra mentre l’elmo è giocattolo per un amorino. Al favoloso Oriente si ispira invece per Cleopatra (Galleria Spada, Roma) e le fa indossare un corpetto rosso con alamari e un copricapo tempestato di gemme.
Nell’autoritratto conservato all’Accademia di San Luca a Roma la pittrice è finemente vestita, occhieggia signorile nei suoi broccati, il corpetto ricamato come le dame d’alto rango che ritraeva. Si mostra al cembalo mentre una servente le porge dei fogli da musica. Le cronache del tempo segnalano che Lavinia si faceva pagare i ritratti a caro prezzo, come Tiziano e Van Dyck. Degna emula di Marzia, vissuta nel mondo antico e citata dal Boccaccio nel “De claris mulieribus”, che aveva spiazzato i suoi colleghi Sopoli e Dionisio perché dipingeva bene ed in fretta procurandosi più alti compensi.
Con i primi successi, infatti, padri e mariti constatarono che anche una donna poteva guadagnare denaro dipingendo, ma le pittrici stesse ne divennero consapevoli e attribuirono, giustamente, valore materiale alle loro tele. E nel ritrarsi allo specchio molte non tacciono l’apprezzamento per il benessere, tant’è che esibiscono la loro signorile agiatezza.
Artemisia, al contrario, nell’Autoritratto in veste di Pittura, si mostra scarmigliata, presa dall’assillo di dimostrare non solo la propria abilità, ma anche la fatica del fare, del produrre. Una scelta non casuale, un ripetere quanto già troviamo espresso nelle sue lettere ai committenti: “Non starò più a infastidirlo con queste chiacchiere femminili – scrive a don Antonio Ruffo – ma l’opere saranno quelle che parleranno”.
Lo stesso vale per Lavinia e noi siamo qui ora ad ammirare le sue sante Cecilia e Caterina.
A Lavinia Fontana fu commissionata la Pala per San Paolo fuori le mura ma una volta eseguita piovvero su di lei molte critiche: le fu infatti rimproverato di volersi cimentare in una composizione troppo ambiziosa. Non so come reagì la pittrice alle critiche, suppongo con la stessa pacata signorilità che la rendeva assai gradita alla nobiltà romana. Un incendio lo ha distrutto nel 1823. Non potremo dunque servirci del manzoniano verso “Ai posteri l’ardua sentenza”.
Guardo in alto, verso la cupola a padiglione come il tamburo su cui poggia, e tutto si mette a girare, in un girotondo incantato nel quale alle Sibille si aggiungono le sante di Lavinia.
Intanto, poco lontano dalla Chiesa di Santa Maria della Pace, alle Scuderie del Quirinale è in corso la mostra di Raffaello: la sua “Velata” incanta e stordisce gli spettatori con il suo fascino speciale. E qui la voluttà la fà veramente da padrona!