Le bambine e la guerra
Gli anni trascorrono senza misericordia e così la memoria collettiva di grandi eventi storici si riduce, si sfrangia, si perde. C’è stata la grande stagione della memoria raccontata in libri della lotta partigiana; di uomini e donne che prima avevano attraversato tutta l’epoca fascista. E’ toccata più recentemente ai figlie e alle figlie impegnati negli anni di guerra dopo l’8 settembre, come staffette partigiane. Un altro gran pezzo di memoria collettiva preziosa per la storiografia.
Ma ora tocca ai bambini e alle bambine che si sono trovati in guerra con o senza la tessera di “figli della Lupa” o di “piccole/i italianI” . Una memoria minore? Non la pensa così Aldo Trione per il libro di cui cura la Postafazione : La guerra delle bambine, ed.Scientifiche Italiane (2014) ,con il sottotitolo: “Sedici nonne raccontano”.
Trione segnala il libro nell’ambito della memorialistica esistenziale: come “un timido entretien , segnato da cieli tersi e luminosi e, al tempo stesso, da atmosfere grigie, da malinconie, dalla gioia infantile del vivere e anche dallo smarrimento per la fine di una stagione felice. Le bambine non sanno, non possono sapere che incombe su di loro la più grande catastrofe del mondo moderno.” Siamo di fronte, precisa: “ a una sorta di romanzo di formazione, segnato da immagini scarne, di parole chiare e vivide che si annodano in una trama mobile, immune da ogni suggestione intellettualistica. “
Non ci sono più le tracce eroiche delle partigiane , la dura e pura consapevolezza del momento : ci sono i personaggi di famiglia e dintorni, talvolta , per l’appartenenza censuale delle autrici, di alto bordo fino a coinvolgere la casa reale o gerarchi e capi politici di una parte e dell’altra ; amici e conoscenti visti e considerati con gli occhi di bambine che del fascismo e del suo Duce, sanno quel poco che i genitori concedono -soprattutto a delle femmine – destinate , ancora, a sognare la vita futura tra le mura di casa e una ( eventuale) professione conciliabile con i doveri sponsali e materni.
Olga Milio Diana (tutte e sedici usano sia il cognome di nubili che quello di sposate) curatrice del libro, nella premessa annota che la guerra ricordata dalle bambine è fatta di flash : “Particolari della guerra, non le grandi linee, né i fatti storici. “. Tutto qui. A che cosa servirà questo narrarsi con i residui della memoria infantile? Una micro storia utile agli storici? Rifare la domanda è d’obbligo.
Intanto ci narriamo, noi donne che eravamo delle bambine con i boccoli o le trecce.
Io sono “entrata” in guerra a due mesi di vita. In una Pola dove le passeggiate si facevano dall’arena romana verso il Foro e l’Arco dei Sergi. Ma avendo in media 4 o 6 anni meno delle sedici nonne , i ricordi personali iniziano a partire dal 1944, quando , in fuga dalla caserma di confine di Fiume, ottenuto il trasferimento per l’imminente invasione titina e dopo la prima stagione ( terribile!) delle foibe seguite all’8 settembre 1943, trovammo casa a Cordovado nei pressi di San Vito in Tagliamento. Dove c’era la caserma della Regia Guardia di Finanza.
A pag. 143 Giovanna Della Chiesa Barberini racconta dalla sua postazione ai Prati di Roma, e della liberazione mentre cercava ,invano, di distrarsi leggendo Bibì.
Bibì, l’ho scoperto di recente, era un libro assai diffuso e molto amato. Giovanna Servi (il suo nome è scritto sulla prima pagina, cancellato e seguito dal mio con la data 1940) figlia del finanziere precedente, lo aveva dimenticato nella cucina dell’appartamento della caserma. Diventerà il mio libro più amato e sul quale ho iniziato a imparare a leggere.” Bibi ha un amico”di Karin Michaelis,ed.Vallardi, Milano 1939-XVII,otto tavole a colori meravigliosamente disegnate da Edvig Collin, racconta di una ragazzina che scrive lettere ai nonni sulle sue avventure in giro,in treno, per la Danimarca. Come dire, un modello emancipatorio utile per il gioco dell’identificazione.
Virginia Mazzega finisce sfollata vicino a Udine con la famiglia ,in casa del nonni. La liberazione, in Friuli arriverà per ultima e infatti Virginia ricorda i partigiani dell’Osoppo, i fazzoletti verdi che un giorno assalirono la caserma della Guardia di Finanza a S.Vito in Tagliamento per trascinare i soldati in un improvvisato campo di concentramento; che era il cortile di una scuola. Fu un errore, perché la Guardia di Finanza era considerata “corpo non combattente”. Mia mamma chiese di conferire con il conte comandante dell’Osoppo . Ottenne di entrare nel campo per verificare lo stato di prigionia (lei aveva fatto il corso di crocerossina) ;e infine ,dopo quaranta giorni, tutti furono liberati .
Agata Piromallo Gambardella racconta il suono, angoscioso, della sirena che obbligava a correre da qualche parte , per cercare un illusorio riparo. I rifugi antiaerei “dei vari palazzi apparivano poco meno che trappole per topi.”.
Ci andammo una volta , nel rifugio , e poi la mamma decise che non era il caso di morire asfissiati se una bomba fosse caduta nei paraggi e avesse chiuso le prese d’aria. Risultato: quando suonava la sirena io e mia sorella dovevamo ripararci sotto le alette di legno della macchina da cucire Necchi collocata vicino al muro maestro; perché se fosse crollato tutto, forse il muro maestro sarebbe stato l’unico a restare…in piedi.
Un’altra trovata di mia mamma consisteva nel correre in campagna: gettare una coperta sul fondo di un fosso profondo , scendere e sdraiarsi con le che ci copriva con il suo corpo e recitava una strana giaculatoria da romagnola laica:” Se la bomba non si chiama Maria, siamo salve!”. E poi c’è la cioccolata. E chi l’aveva mai vista ? Ma quando arrivarono i “liberatori” con la cioccolata e le scatolette di crema di noccioline poco gradevoli, che festa!
La ricordano diverse, tra le sedici, la cioccolata. Una mattina presto la mamma scese dall’unica camera che avevamo in affitto, in cucina, al piano terra. Aprì la finestra di fronte alla scuola elementare e si accorse che due soldati americani andavano su e giù non oltre il perimetro della finestra. I soldati americani erano arrivati alla sera e avevano occupato la scuola. I due avevano fatto in tempo a vedere la bimba con i boccoli ramati e un “fratellino” riccio, riccio. La cioccolata la volevano regalare alla bambina e non ne vollero sapere di consegnarne anche al “fratellino” che era poi una bimba. La scrittrice napoletana Giovanna Mozzillo ci racconta una storia di tedeschi . Tedeschi ormai in disfatta che aiutavano, galanti, la zia Rosa a reggere il cesto delle uova e a scortarla perché non scivolasse sul sentiero sdrucciolevole.
Bisogna restituire un pasol complesso per una storia sfaccettata non solo affare di generali, re, duci e alti dirigenti della futura libertà democratica e repubblicana. Quando arrivarono i tedeschi a Cordovado nella solita scuola elementare requisita, la mia banda di bambini andò a sbirciare nel cortile ,dove avevano messo a funzionare una sorta di cucina da campo. Un cuoco soldato ci portò qualche fetta di pane nero con sopra patate bollite e un po’ di zucchero. Quando dovettero lasciare il paese per la Germania cercarono di disfarsi di armi inutili buttandole in fosse profonde scavate lungo la recinzione interna del cortile. Noi ,della banda, cercammo, incuriositi, di osservarne il lavoro frenetico , ma ci cacciarono via in malo modo. Poi partirono con i soliti ostaggi su di un camioncino. La mattina dopo avevo la febbre alta e i vermi: avevo avuto paura che deportassero anche mia mamma.
Il babbo era sempre consegnato a San Vito, in caserma. Una notte due soldati tedeschi entrarono in camera , chiesero di vedere una foto del marito assente e si portarono via la sciabola di alta ordinanza.
Più piccole, più grandi, più ricche, meno ricche ci accomuna l’aver attraversato paure e ristrettezze di ogni genere, ma anche un paesaggio cosmopolita di non facile decifrazione e di grande fascino.
Per ultimo: c’erano le bambole abissine che la mamma negò a una delle sedici perché di significato evidentemente colonialista. E c’era la mia bambola, la Montenegrina di panno lenci : doveva ricordarci le origini della regina Elena? La prefazione si conclude così: “Le nostre sono piccole storie nella grande storia, ma alla grande storia danno un sapore particolare, ed è peccato che vengono dimenticate!”.