Le “Donne di conforto”della Corea: La rivolta delle schiave
Il gruppo in diminuzione costante delle Donne di conforto della Corea
ha lottato per anni per ottenere giustizia. Ma un movimento revisionista
crescente in Giappone rifiuta di riconoscere gli abusi che hanno subito.
In Corea, le chiamano {halmoni} o nonne – benché molte siano talmente
segnate mentalmente e fisicamente da non essersi mai sposate né avere
avuto figli. In Giappone, sono conosciute come {Donne di conforto}, un
eufemismo odioso per il loro ruolo forzato di fornire “conforto” alle
truppe giapponesi in bordelli militari. Ma nel mondo, un’altra
denominazione più dura le perseguiterà fino alla tomba: schiave sessuali.
{{Kang il-chul}}, è una delle poche sopravvissute che sta finendo la sua vita
nella “Sharing House”, un museo e rifugio comunitario a due ore dalla
capitale della Corea del Sud, Seul. E’ un edificio severo in cemento in
una zona poco popolata tra campi di riso e diverse foreste di montagna.
Ma lei dice di avervi trovato una forma di pace: “Sono tra le mie
amiche, che mi trattano bene” dice.
Racconta che è stata presa {{all’età di 15 anni e mandata in una base
giapponese}} in Manciuria. Dalla seconda notte, {{prima delle sue prime
mestruazioni, è stata violentata}}. Notte dopo notte, dei soldati facevano
la fila per abusare di lei. Ha delle cicatrici sotto il collo di
bruciature di sigaretta e lei dice di soffrire di mal di testa perché è
stata picchiata da un ufficiale giapponese. “Ho sempre lacrime di sangue
nella mia anima quando penso a quanto è accaduto” dice.
Come molte donne, trova traumatizzante ricordare il passato, piangendo e
torcendo un fazzoletto e dondolandosi mentre parla. Ma si arrabbia e
batte sul tavolo davanti a sé quando si menziona il {{Primo ministro
giapponese}} Shinzo Abe.
_ “Quest’uomo orribile vuole che noi muoiamo”.
L’anno scorso, il signor Abe ha sbalordito la “Sharing House” dichiarando
che {{non ci sono “prove”}} che dimostrino che le donne erano state
costrette, capovolgendo la posizione giapponese.
Travolto da una
tempesta politica e da pressioni da parte degli alleati USA, egli ha
fatto marcia indietro con une serie di dichiarazioni formulate con
prudenza che hanno calmato il calore della controversia.
_ Ma la negazione “ha atterrito” Kang.
“
La più gran paura delle donne è che si dimentichino
dopo la loro morte i crimini commessi contro di loro” aveva detto Ahn
Sin Kweon, il direttore di “Sharing House”.
Migliaia di donne asiatiche –alcune di appena 12 anni – “sono state
ridotte in schiavitù… e violentate, torturate e brutalizzate
ripetutamente per mesi e anni” secondo un [rapporto di Amnesty
International->http://www.amnesty.it/pressroom/comunicati/CS128-2005.html].
_ Abusi sessuali, botte e aborti forzati hanno reso molte
donne incapaci di avere figli.
La maggior parte delle sopravvissute è rimasta in silenzio fin quando un
piccolo gruppo di vittime coreane non ha parlato apertamente, all’inizio
degli anni ‘90. Tra loro, {{Kim Hak-soon}}, che è stata violentata e
trattata, secondo le sue stesse parole, “come un cesso pubblico”.
_ “Dobbiamo ricordare queste cose che ci sono state imposte” aveva detto
prima di morire.
L’appello era stato ripreso da circa 50 donne, ricorda Ahn Sin Kweon.
Molte donne non erano sposate o vivevano sole in piccole città,
vivacchiando a stento.
_ “Un’organizzazione buddista ha aiutato a
costruire “Sharing House” su un terreno offerto negli anni ‘90.
_ All’inizio erano abbastanza reticenti perché più erano sotto le luci dei
proiettori e sempre più persone sapevano che loro erano state
violentate.
_ E’ molto difficile per donne di questa generazione discutere
di temi sessuali apertamente, e ancor meno di esperienze vissute”.
Il Giappone aveva riconosciuto ufficialmenta la schiavitù militare in
tempo di guerra in una dichiarazione storica del 1993, seguita da
un’offerta di risarcimento proveniente da un piccolo fondo privato,
estinto l’anno scorso.
_ Ma questa dichiarazione detta di Kono ha
tormentato a lungo i revisionisti giapponesi che negano che l’esercito
sia stato coinvolto direttamente. “Le donne erano prostitute legali che
si guadagnavano del denaro per la loro famiglia” dichiara
l’universitario revisionista Nobukatsu Fujioka.
Benché il signor Abe non sia più primo ministro, sostituito da Yasuo
Fukuda, Kang il-chul e le sue compagne vittime temono che il {{ritorno del
negazionismo sia solo una questione di tempo}}, forse con il prossimo
Primo ministro giapponese. La lotta caratterizza gli ultimi anni della
loro vita; {{se perdono, saranno catalogate come prostitute}}.
Quando la sua salute glielo permette, questa donna di 82 anni si trascina ad una manifestazione settimanale davanti all’ambasciata del Giappone a Seul.
_ Le ex schiave sessuali vi si recano dall’inizio degli anni ‘90 e
hanno svolto la loro {{800° manifestazione consecutiva in febbraio}}.
_ Esse
urlano con rabbia contro i muri le loro rivendicazioni che comprendono
la punizione di coloro che le hanno violentate, le scuse da parte
dell’imperatore e la costruzione di un memoriale in Giappone, ma è
improbabile che ce la facciano.
{{La manifestazione del mercoledì}}, come la chiamano, ha assunto un
carattere rituale ed è impregnata di tristezza visto che il gruppo delle
sopravvissute, già piccolo, è ridotto a causa delle malattie e della
mortalità.
_ Delle 15 residenti alla “Sharing House” ne restano solo 7, la
maggior parte delle quali in cattive condizioni di salute.
_ Ma le donne sono incoraggiate da {{piccole vittorie}}.
L’anno scorso, il
{{Congresso USA ha approvato la Risoluzione 121}} che invita Tokyo a
“scusarsi ufficialmente e ad accettare la responsabilità storica” per la
questione delle donne di conforto. Kang il-chul è una delle donne che
sono state a Washington per testimoniare.
_ La risoluzione presentata dal politico americano di origine giapponese
Mike Honda, è stata fortemente combattuta da Tokyo.
_ Un editoriale nel
più grande giornale giapponese, {Yomiuri}, ha detto che non esisteva
“un’ombra di prova per giustificare” l’affermazione che il governo
giapponese aveva costretto e reclutato donne.
Oggi, un grande manifesto che mostra un Honda splendente è appeso nel
cortile più grande del comune. Una copia della Risoluzione 121, firmata
da Honda e dalla presidente del Congresso Nancy Pelosi è appesa
nell’ufficio di Ahn Sin Kweon. “La risoluzione è stata molto importante
per noi perché la nostra priorità è mantenere viva la memoria di queste
donne” dice, ricordando l’accoglienza fatta ad Honda durante la sua
visita lo scorso novembre. “E’ stato trattato come un eroe”.
Curiosamente, forse, il signor Ahn dimostra una grande rabbia verso il suo governo.
_ Come molti militanti, crede che Seul abbia barattato ogni rivendicazione
di risarcimento quando ha firmato un trattato d’amicizia con il Giappone
nel 1965, in cambio di milioni di dollari di prestiti a basso interesse
e di sovvenzioni. Egli dice che spetta anche al popolo giapponese
criticare i loro governi. Ogni anno, dice, circa 5.000 Giapponesi
viaggiano fino al suo ufficio.
_ I loro incontri con le ex schiave
sessuali sono spesso strazianti e piene di lacrime. Alcuni restano come
volontari per lavorare nel centro.
Ma Kang il-chul diffida molto dei giornalisti giapponesi. “Essi vogliono
mostrarci deboli e morenti” grida battendo di nuovo sul tavolo
arrabbiata. Soprattutto l’equipe televisiva. Essa segue le donne più
vecchie e più malate nelle vicinanze. Più tardi, mi ferma mentre
fotografo una donna esile che guarda la TV, lo sguardo vuoto.
_ “Dovete
mostrarvi forti” esige e noi la fotografiamo mentre posa come un boxeur,
accanto al monumento alle schiave sessuali.
_ Lei ricorda il giorno in cui è stata rapita. “I soldati avevano una lista
dove figurava il mio nome. Mi hanno fatto salire un camion. Mio nipote è
uscito per guardarli. Era appena un bambino piccolo. I soldati gli hanno
dato dei calci e lui è morto”.
Ricordi come questi la rendono forte, dice. “Le generazioni future ci
chiameranno prostitute. O il governo giapponese salverà la faccia, o noi
salveremo la nostra”.
{
Traduzione di Marianita De Ambrogio – Donne in Nero Padova}
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