L’estate del nostro scontento
L’estate ha portato con sé un attacco durissimo ai diritti del lavoro e ai livelli di democrazia del nostro paese.
Mi riferisco principalmente alla legge finanziaria e in particolare alle disposizioni contenute nell’art. 8, ma anche all’accordo interconfederale del 28 giugno scorso. Per comprenderne la minaccia implicita occorre, secondo me, fare i conti con la nostra storia.
_ Solo mettendo a fuoco errori e accadimenti del passato è possibile, infatti, prendere consapevolezza dell’intero disegno che il presente ci offre e assumere anche coscienza di sé come soggetto agente/interveniente, dismettere una prassi diffusa di allineamento alla narrazione altrui, per evitare tentazioni di sottovalutazione e di obbedienza a regole che dispongono di noi come di oggetti, offuscando lo status di cittadini.
Le disposizioni richiamate sostengono la “contrattazione collettiva di prossimità”: la sostiene il Ministro Sacconi e con qualche distinguo anche i tre sindacati confederali.
_ Va ricordato che negli anni Novanta del secolo scorso questo tipo di contrattazione aveva consentito che la società La Rinascente (allora del gruppo FIAT, in ristrutturazione) spostasse unilateralmente, con breve preavviso temporale, da un grande magazzino UPIM a un supermercato SMA e dequalificasse nelle mansioni un gruppo di lavoratrici molto sindacalizzate. Ciò, in un contesto formalmente garantito da leggi e contratti collettivi nazionali.
Il modus operandi consisteva nel trasferimento autoritativo del contratto individuale di lavoro delle dipendenti da una società all’altra, con l’accordo del sindacato territoriale di categoria aderente alle confederazioni nazionali.
_ Nessun referendum aveva convalidato l’accordo e neppure il dissenso esplicito delle interessate, che avevano invano richiesto di autorappresentarsi nella trattativa, aveva contato gran che.
_ Restava la tutela dei loro diritti per via giudiziaria: il ricorso al Giudice del lavoro in base alla legge (Statuto dei Lavoratori, Codice civile) che fu proposto e vinto, con la conseguenza della reintegrazione effettiva delle lavoratrici nel precedente posto di lavoro presso il magazzino UPIM. Le stesse lavoratrici oggi non potrebbero conseguire questo esito positivo: l’art. 8 del decreto legge 13 agosto 2011 n. 138 e l’accordo interconfederale del 28 giugno, firmato definitivamente nel settembre 2011, non lo consentirebbero.
_ Vediamo perché.
Il citato art. 8 stabilisce che la materia relativa all’organizzazione del lavoro e alla produzione sia regolata preferenzialmente da accordi di livello aziendale o territoriale, capaci di derogare sia ai contratti nazionali sia alle leggi dello Stato.
_ Per di più, tali accordi sono destinati ad avere valore vincolante per tutti i lavoratori interessati, anche se non aderenti alle organizzazioni stipulanti. Le materie che possono essere regolate coprono tutte le possibili articolazioni del rapporto di lavoro.
Solo in via esemplificativa: modalità di assunzione e tipologia contrattuale, retribuzione, mansioni e classificazione del personale, sorveglianza con mezzi audiovisivi, orario di lavoro, trasformazione del contratto di lavoro, sua estinzione, anche in deroga alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Questa legge presenta molte le anomalie, prima fra tutte il sovvertimento dell’ordine gerarchico delle fonti di diritto che vede la legge dello Stato prevalente rispetto a qualsiasi accordo fra parti privati (tali sono i sindacati).
_ Un sovvertimento che vale quale abdicazione a una parte importante della potestà legislativa su materie cui spesso ineriscono valori costituzionali.
Aleggia sulla previsione un forte sospetto d’incostituzionalità non solo perché l’art. 39 della Costituzione prevede la possibilità di produrre effetti giuridici vincolanti erga omnes solo per i contratti stipulati da sindacati registrati, previa verifica di democraticità del loro ordinamento interno, requisito (la registrazione) che i sindacati confederali non hanno.
_ Ma anche perché l’impianto della norma contraddice, trattando la materia come puro scambio fra oggetti (forza lavoro/denaro), la nozione che innerva la Costituzione repubblicana: la dignità del lavoro implica in quel rapporto l’esistenza di valori anche extra patrimoniali, beni della persona che vanno tutelati, pena il deterioramento dello status di cittadino per chi è nelle condizioni di vendere la propria forza lavoro.
Anche per questo una Repubblica fondata sul lavoro (art. 1 Cost.) non può decampare dalla potestà/responsabilità legislativa riconoscendo a soggetti privati il compito di formulare regole in deroga alle sue proprie.
Come risulta chiaro, nel caso UPIM sopra riferito le ragioni delle lavoratrici sarebbero state soffocate nelle spire dell’art. 8, salvo il ricorso (lungo e oneroso) alla Corte Costituzionale per l’accertamento d’incostituzionalità.
_ Inoltre, non solo le strutture territoriali dei sindacati nazionali, ma anche sindacati aziendali di comodo, eventualmente sostenuti da una maggioranza di addetti preoccupati della propria personale sorte in situazione di crisi, avrebbero potuto stipulare accordi capaci di cancellare in via definitiva i loro diritti individuali.
Anche l’accordo interconfederale del 28 giugno, sottoscritto definitivamente il 21 settembre scorso, si propone di estendere a tutti, iscritti e non, l’efficacia della contrattazione aziendale, noncurante del fatto che la contrattazione nazionale sia sprovvista di tale efficacia a causa della inattuazione dell’art. 39 Cost.
Una previsione che manifesta un concetto proprietario della contrattazione e della rappresentanza, anche a causa di stipulazione intervenuta in assenza di specifico mandato e non sottoposta a referendum. Esso inoltre certifica la (pericolosa) disponibilità delle confederazioni sindacali verso il capovolgimento dell’ordine regolamentare, rendendo il contratto nazionale flessibile in favore di esigenze aziendali ispiratrici della contrattazione di secondo livello, ove massimo è lo squilibrio nei rapporti di forza fra le parti contrapposte.
Altro elemento poco apprezzabile è quello di attribuire la rappresentanza di lavoratrici e lavoratori a sindacati valutati dal CNEL in base ai dati relativi alle deleghe per trattenute sindacali operate dalle aziende, unitamente ai dati elettorali delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU), che registrano la situazione di privilegio in favore dei sindacati tradizionali stabilita da un precedente accordo interconfederale.
La problematica non è nuova ed era stata affrontata alla fine del secolo scorso da varie proposte di legge (discusse e accantonate dal Parlamento) che avevano lo scopo di allargare la rappresentanza e la partecipazione della base.
_ Una di queste proposte, elaborata dall’associazione femminista milanese Osservatorio sul Lavoro delle Donne, presentava la caratteristica per me preziosa di essere orientata dal doppio punto di vista, di sesso e di classe, nel tentativo di mettere a fuoco, per cancellarle, discriminazioni e ingiustizie sociali.
L’esperienza insegna che non è mai esistita, soprattutto nel nostro Paese, una giustizia sociale unica, valida indifferentemente per uomini e donne. Al dunque, emerge una scelta, quella che prevede per gli uomini la priorità nell’attribuzione delle risorse e per le donne, in seconda battuta e solo se è possibile, l’attribuzione parziale di ciò che essi hanno considerato desiderabile per se medesimi.
Questo esito è da attribuirsi, secondo me, a quello che mi appare come il misfatto della divisione sessuale del lavoro. Si crea un nesso strettissimo sul doppio versante produttivo/riproduttivo: sul piano produttivo le donne sono utilizzate come lavoratrici ultraflessibili di riserva per rompere la compattezza della classe e rendere poi tutti ultraflessibili e precari.
_ Sul piano riproduttivo, esse subiscono un ulteriore carico destinato ad appesantirsi con la progressiva riduzione dei servizi sociali, causata dai tagli alla spesa pubblica, in risposta a situazioni di crisi.
Nella mia analisi, il gioco appare favorito dalla frantumazione personale e sociale causata da una sovrabbondante dedizione al lavoro di cura, introiettato da molte donne come dovere ineliminabile o come desiderio irresistibile, probabilmente una scelta di adeguamento alle aspettative sociali.
La via di uscita dall’impasse mi sembra quella di agevolare in ogni modo la possibilità di prendere in mano il proprio destino, dando voce e rappresentanza democratica a bisogni e desideri radicati nel corpo/mente di soggetti diversamente sessuati, attraverso misure che valorizzino, non deprimano le potenzialità della classe, concentrandole nel soggetto unico maschile facile preda, per motivi strutturali, degli eccessi di potere di soggetti sovra ordinati.
_ La rappresentanza dovrebbe essere riconosciuta ai soggetti reali e l’operazione potrebbe prendere avvio proprio dalla scelta dell’agente contrattuale, a tutti i livelli.
Nella proposta dell’Osservatorio erano individuate misure intese a favorire rappresentanza e contrattualità femminile.
_ Secondo una prima ipotesi, le lavoratrici potevano scegliere di concorrere alle elezioni con una lista composta di sole donne, sottoscritta da presentatrici che costituissero almeno il 3% delle addette all’unità produttiva interessata.
_ La previsione aveva un valore simbolico e materiale poiché autorizzava il confronto e l’elaborazione collettiva delle dirette interessate sulle caratteristiche del lavoro cui erano addette, sulle loro aspettative, sulla necessaria progettualità.
La seconda ipotesi di lista elettorale discendeva dall’applicazione dei principi di eguaglianza contenuti negli articoli 3 e 51 della nostra Costituzione e prevedeva la formazione di liste comuni di donne e uomini, inseriti in misura proporzionale alla loro presenza nella base elettorale, in ordine alfabetico alternato fra maschi e femmine. Le liste non rispondenti ai criteri stabiliti potevano essere annullate dal Giudice del Lavoro -a richiesta di chi ne avesse interesse giuridicamente rilevante- con il decreto conclusivo della speciale procedura urgente prevista dall’art. 28 Statuto dei Lavoratori. Era prevista, inoltre, esplicitamente l’estensione a elette/i delle tutele previste dai titoli II e III dello Statuto dei Lavoratori.
L’importanza di questa previsione risulta oggi evidente: la sottoscrizione di accordi ai vari livelli (aziendali, territoriali, nazionali) esce rafforzata dal dibattito e dalla esplicita dichiarazione di volontà dei soggetti coinvolti, ponendo un punto fermo alla diatriba sulla maggiore o minore rappresentatività dei vari attori sindacali. Serve a rafforzare la responsabilità individuale nelle scelte che incidono sulla propria esistenza, ma anche a inserire la dichiarazione di volontà in una rete di relazioni plurali.
La possibilità di auto rappresentarsi appare quale misura idonea a potenziare i conflitti valorizzando i soggetti, una pratica di democrazia che fa perno anche sull’eliminazione della divisione sessista del lavoro fra donne e uomini, che progressivamente rimuove la situazione di illibertà materiale ed emotiva delle donne nel privato, così ridefinendo anche la sfera pubblica.
Lascia un commento