L’Europa e la fine del (nostro) mondo
Luca Cirese | 2 novembre 2016
Difficile dire quanto durerà l’Unione Europea ma tutto lascia credere che stia vivendo il suo autunno. La crisi sembra irreversibile, il ritorno delle frontiere sempre più probabile. Le paure e i muri che vengono alzati sono però anche il risultato di una transizione, di un passaggio epocale, cominciato con la globalizzazione. Il futuro sembra disegnare uno scenario apocalittico, da fine del mondo, ma è solo la fine di un mondo, il nostro, per come lo abbiamo immaginato, almeno negli ultimi duecento anni. Le civiltà spesso rappresentano se stesse come la totalità del mondo. Non dobbiamo cadere in questa auto-illusione, prendiamo un bel respiro e relativizziamo. Dovremo lavorare in favore di comunità libere e non identitarie per seminare solidarietà in un futuro che si caratterizzerà per una maggiore competizione e disgregazione sociale. E bisognerà essere creativi, ripensando il lavoro intellettuale e manuale all’epoca della robotizzazione e della disoccupazione, e mandando avanti progetti collaborativi per ritessere la società in ambito locale.
Domenica 2 ottobre 2016 il referendum voluto dal premier ungherese Viktor Orbàn non ha raggiunto il quorum. Un risultato che potrebbe certo essere letto come una conferma del trend di allontanamento di larghi strati della popolazione europea dal voto. Rimane però un chiaro dato politico: alla domanda di natura etnica: “Volete o no che la Ue imponga a ogni suo paese membro quote di ripartizioni di immigrati, senza consultare governo e Parlamento nazionali e sovrani magiari?”, il 98% delle persone ha risposto No. Ancora una volta si mostra con chiarezza che “nessuna vittoria è definitiva” e che il ritorno delle frontiere è quello che attende l’Europa nel suo autunno. Non si sa quanto ancora durerà l’Unione Europea, ma sembra ormai in una crisi irreversibile.
Michel Houellebecq nel suo ultimo libro, Sottomissione, ne immagina una risurrezione in nome del fondamentalismo islamico e della sua misoginia, arrivando a parlare della famigerata Eurabia con l’entrata del Nord-Africa nell’Unione. Trattando il richiamo all’integralismo come poco più che una provocazione, proviamo a domandarci invece cosa significhi davvero Eurabia in termini geo-politici. Eurabia vuol dire l’antico Impero romano, cioè l’istituzione secolare più duratura della storia dell’Occidente, significa spazio imperiale multi-etnico e mediterraneo, che sarebbe una delle principali potenze politico-economiche mondiali.
Gli spazi di tipo imperiale hanno fatto parte, per lo più, del nostro passato ma dovranno far parte anche del nostro futuro, come ci insegnava Alexander Langer ormai ventuno anni fa: l’Europa che viene sarà uno spazio di convivenza tra culture diverse o non sarà affatto. A giudicare dalle avvisaglie la prospettiva sarà però quella di una sua deflagrazione e il ritorno dei nazionalismi, anticipato nella guerra jugoslava di venticinque anni fa: dopo la costruzione di un muro sulla rotta balcanica in Ungheria, dal Regno Unito arrivano il progetto di costruzione di un muro “anti-immigrati” a Calais, in territorio francese e la proposta del ministro dell’interno inglese di creare delle liste dei lavoratori per bilanciare la forza-lavoro, almeno per il momento, tra europei e migranti; dalla Svizzera la vittoria del referendum contro i frontalieri italiani che passano il confine per lavorare; dall’Austria, infine, la proposta di riunificare il Tirolo da parte del leader del partito di estrema destra Heinz-Christian Strache, partito che a dicembre andrà nuovamente a ballottaggio per la presidenza.
I muri che stiamo innalzando, le paure che sentiamo, lo smarrimento che proviamo sono il risultato della transizione che stiamo attraversando, un passaggio epocale di lungo periodo, cominciato con la globalizzazione. Dove ci porterà ancora non lo riusciamo a scorgere, ma possiamo osservare alcune strade che stiamo già percorrendo. Uno degli aspetti centrali del nostro futuro prossimo sarà l’innovazione tecnologica che caratterizzerà la prossima rivoluzione industriale, tramite la rete e la robotizzazione. L’impatto che il web sta avendo nell’organizzazione di imprese di nuova generazione, come Airb&b e Blablacar, grazie all’abbattimento dei costi che la rete permette nella messa in condivisione degli asset, cioè, semplificando, dei beni dei singoli cittadini, sta portando, secondo Paul Mason, un’organizzazione produttiva “post-capitalistica”, in cui al possesso si sostituisce l’accesso. Basato invece su dati di più ricerche il crollo verticale dell’occupazione a causa dell’automazione, posto che un robot può fare o farà meglio e a più basso costo, la maggior parte dei lavori manuali e non che facciamo noi. Si profila, cioè, quella che il mondo anglosassone chiama jobless recovery: lo scenario di una nuova crescita senza occupazione. C’è un aneddoto sull’automazione che può aiutarci a capire l’altro effetto sistemico della robotizzazione: “Un dirigente Ford mostra una catena di montaggio composta tutta da robot ad un sindacalista, e gli dice: ‘Nessuno di questi operai sarà mai iscritto al sindacato’ e il sindacalista gli risponde: ‘E nessuno di questi operai comprerà mai una Ford’”. La distruzione del lavoro ad opera dell’automazione è la distruzione del lavoratore anche come consumatore, cioè non più abile a comprare le merci. É questo sta spingendo anche le nuove imprese della Silicon Valley, all’avanguardia nella robotizzazione, a insistere sul provvedimento del “reddito di cittadinanza”, cioè un reddito tendenzialmente slegato dalla prestazione lavorativa.
Al di fuori di questo provvedimento, difficile a farsi, rimane un futuro di lavori 24 ore su 24 mal pagati per pochi e disoccupazione di massa per tutti gli altri: sembra uno scenario apocalittico, da fine del mondo, ma è solo la fine di un mondo, il nostro, per come lo abbiamo immaginato almeno negli ultimi duecento anni, cioè dalla prima rivoluzione industriale. Le civiltà spesso rappresentano se stesse come la totalità del mondo: alcune tribù che chiamano nella propria lingua se stesse “uomini” e gli altri “non-uomini” e i romani pensavano che la fine di Roma avrebbe significato la fine del mondo. Noi, che in questa transizione ci troviamo, non dobbiamo cadere in questa autoillusione. Che fare però quando sembra che “il cielo ci cada sulla testa”? Innanzitutto prendiamo un bel respiro e relativizziamo: «Caggiono i regni intanto,/ Passan genti e linguaggi: […] / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.», ci ammoniva contro Giacomo Leopardi nella splendida poesia La Ginestra, o il fiore del deserto, ricordandoci che il mondo dell’uomo è ben piccola cosa di fronte alla Natura. Teniamo a mente che ogni civiltà è un organismo, con un’origine un apogeo e una fine, come sosteneva Polibio: una volta esaurito il suo ciclo vitale, ogni cultura è destinata a sparire, come la precedente e la successiva; nella narrazione dello storico greco, Cartagine che brucia per volontà di Roma non è che prefigurazione della fine della Città eterna. Impariamo allora, innanzitutto, a vivere con il terremoto, nell’incertezza, impariamo oggi ad apprezzare l’impermanenza e a cogliere la bellezza dell’effimero, come ci insegna Orazio: «Non tentare gli oroscopi d’oriente:/ male è sapere, Leucònoe./ Meglio accettare quello che verrà […]. Ma sii saggia: e filtra il vino/ e recidi la speranza/ lontana, perché breve è il nostro/cammino, e ora,/ mentre si parla, il tempo/ è già in fuga, come se ci odiasse!».
In più, la transizione va osservata con sguardo storico: i temi di cui parliamo, anche se nella forma della informatizzazione e della semplice automazione, sono quelli che, alla fine dei “Trent’anni gloriosi” (1945-1975), hanno contribuito a trasformare l’Italia da paese industriale a paese terziario, con tutto quello che ha significato in termini di mutazione dei rapporti sociali. Le avanguardie operaie più avvedute (il Pci era altrove) gridavano “Lavoro zero reddito intero/tutta la produzione all’automazione”, e parti del Movimento del ’77 ragionavano su come la tecnologia, tolta dal monopolio degli imprenditori, potesse essere messa a servizio della liberazione della vita dal lavoro: «Un invito a non alzarvi stamattina, a stare a letto con qualcuno, a fabbricarvi strumenti musicali o macchine da guerra» recitava la prima trasmissione di Radio Alice, voce del movimento bolognese: un’idea non a caso tornata in piazza quarant’anni dopo al Nuit Debout parigino. I rapporti di forza sociali, al momento, non sembrano però essere tali da permettere un uso sociale della tecnologia. Quali vie di fuga allora? Mettersi anche in ascolto del cambiamento che la sharing economy, di fatto, sta operando nel rapporto con il possesso e dare spazio, voce, lavorare in favore di comunità libere e non identitarie per seminare solidarietà in un futuro che si caratterizzerà per una maggiore competizione e disgregazione sociale: bisognerà cioè essere creativi, ripensando il lavoro intellettuale e manuale all’epoca della robotizzazione e della disoccupazione e mandando avanti progetti collaborativi, dalle cooperative alle imprese sociali alla costruzione di progetti locali per ritessere la società in ambito locale.
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