Appunti su “Secular conference”, convegno che si tiene a Londra dal 10 al 13 ottobre, per discutere di integralismi religiosi e diritti delle donneSecular Conference a Londra 2014 – primo giorno

Sarà che funziona il fattore ‘estero’, e forse anche un po’ la vacanza (dopo il disastro dell’alluvione di Genova che ha sabotato la nostra piccola delegazione la fortuna ha voluto che si liberasse un posto nello splendido hotel dove si svolge la Conference), ma questo appuntamento politico quasi ignorato dalla stampa e dall’attivismo italiano è fantastico.

In ogni intervento (oltre 30 persone nei vari panel tematici per due giorni, che esaminano i vari intrecci con la laicità, dal corpo alle istituzioni passando per l’educazione e le resistenze culturali e ideologiche) ci sono spunti di straordinario interesse, e anche se mi rendo conto che sto usando aggettivi iperbolici vorrei che mi credeste: è così, è un appuntamento d’eccezione.

Come per molti eventi esteri, (in particolare nella cultura anglosassone), le cose filano lisce nei tempi: non ci sono quarti d’ora accademici, le pause di dieci minuti sono di dieci minuti così come gli interventi non debordano. Ma questa, si potrebbe dire, è solo forma e, anche se non è male, è il contenuto che conta.

E allora vediamo, in ordine sparso e per cenni (in attesa di poter rendere disponibili le interviste audio e video) cosa si è squadernato in questa prima giornata.

I venti minuti del filosofo scrittore e columnist del Guardian AC Graylins  http://www.acgrayling.com sono un distillato di humor british sull’ossimorica tendenza di ogni religione a dirsi democratica, aperta e foriera di libertà. Ce né per tutti: ebrei, cattolici e islamici. Graylings ironizza, tra le risate crescenti e con un eloquio incalzante sulla ‘promessa’ che ogni fede baratta a danno del presente: la vita sulla terra è solo un soffio che si interpone tra te e il paradiso, e quindi a poco vale la fragile ricerca laica del benessere e della giustizia qui e ora. Poi il monito serio: il pericolo dell’educazione religiosa non sta nel voler educare, conclude Graylins, ma nel pretendere di educare a cosa pensare: l’educazione dovrebbe insegnare a pensare, punto. A quando, al posto dell’educazione religiosa, l’insegnamento della storia delle idee?

Marieme  Helie Lucas , attivista e studiosa di origine algerina tra le organizzatrice dell’evento, più volte invitata e pubblicata da Marea in Italia ribadisce con forza l’uso dannoso dell’uso delle ‘differenze’ culturali per giustificare la negazione dell’universalismo dei diritti e il permesso di usare le leggi religiose, su richiesta delle parti fondamentaliste dell’Islam in Europa. “Siamo vittime dell’essenzialismo e del relativismo quando reclamiamo diritti diversi su base religiosa, anche quando vogliamo difendere ‘i diversi’ nel nome delle culture identitarie. Accade sempre più spesso che i governi occidentali si mettano in relazione con  rappresentanti religiosi che non sono mai stati eletti e che parlano a nome di una parte precisa delle comunità (non certo per le donne), e portano avanti i diritti di una minoranza esclusiva. Spesso siamo forzati dentro categorie cristallizzate, a seconda della provenienza geografica e religiosa (che si presume che seguiamo): su questo si basa la visione multiculturale, – afferma Helie Lucas  – : è una visione che garantisce l’esistenza di enclaves chiuse nella quali governano quasi sempre principi non democratici e comunque che pretendono di poter fare a meno dell’universalismo dei diritti”.

Taj Hargey, che dirige una moschea e un centro di studi più volte attaccato dagli islamistoi per la sua apertura all’occidenteva di corsa nel suo discorso perché è tardi e snocciola i vari motivi per i quali non ha senso invocare la fede nell’Islam per imporre alle donne velo, burka e altre forme di segregazione e negazioni di diritti. http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/southafrica/11097221/Muslim-academic-gets-death-threats-over-women-and-gay-friendly-mosque.html

Il suo non è il solito appello alla ‘buona’ fede, veicolo di pace e foriera di amore: in una democrazia, scandisce,  non è ammissibile che esistano comunità o luoghi che attribuiscono doveri diversi per cittadinanza, sesso o orientamento su base identitaria e religiosa.  Come permettere che un’idea che mortifica le donne e i loro corpi abbia spazio, e che si autorizzino, in nome della ‘tolleranza’, umiliazioni come il burka o il niquab? Il suo forte intervento termina con l’auspicio che si bandiscano in Europa, così come si aiutino i movimenti secolari nei paesi musulmani.

Parvez Hoodbhoy , scienziato pakistano con alle spalle una lunga storia di ribellione contro l’integralismo, analizza l’ascesa del concetto di stato islamico domandandosi se chi lo invoca abbia idea di cosa sia, e se questo concetto esista dentro ai testi considerati sacri e fonte di diritto dagli islamisti. “Credo che nessuno tra i fanatici sostenitori dello stato islamico sappia davvero quello di cui parla, perché non esiste evidenza storica dell’esistenza di uno stato di questa natura, esordisce. Nemmeno una parola in arabo indica il concetto di stato, solo quello  di comunità. E siccome queste persone invocano il Corano per motivare il progetto di stato islamico evidentemente mentono”.

Il suo può sembrare un discorso di carattere teologico estremamente tecnico: in realtà è invece importante, perché significa stare sul terreno che queste forze tentano di accreditare, ovvero quello del consenso sulla base della ‘rivelazione’.

“Nei testi coranici non ci sono cenni a stato, esercito, tasse e altro che identifichi l’indicazione della possibilità di fare uno stato”. Dopo il suo intervento risulta più chiaro, (anche se non sempre è ben visto dai movimenti agnostici), come sia importante l’esegesi dei testi per creare una cultura laica e antifondamentalista nelle comunità musulmane.

Di grande impatto emotivo la scelta formale di Karima Bennoune, docente arabo americana di legislazione internazionale, di parlare delle vittime del fondamentalismo.

Sullo schermo dietro di lei scorrono le immagini e i volti di uomini e donne di varie provenienze geografiche, attiviste e attivisti per la laicità, che hanno trovato la morte negli ultimi anni per mano degli islamisti. Non c’è nulla di enfatico o di eroico nel suo breve racconto delle biografie: Karima chiede che si ricordino queste persone perchè fare memoria è un gesto politico prioritario per avere futuro e ricordare che la libertà di vivere senza il giogo della ‘ideologia religiosa non c’è ancora in molti luoghi del pianeta. “Non si tratta di fede, scandisce, ma di fanatismo, di politica, e di regime”.

Nella sessione dedicata al multiculturalismo sono durissime le parole nei confronti di quella parte della sinistra sinistra che, oggi, rischia di diventare la nuova destra quando nega l’universalismo. Un discorso piuttosto impensabile in Italia.

Hamid Taqvaee , attivista e docente iraniano comunista ribadisce che il pericolo reale con il quale abbiamo a che fare non è tanto, e solo, il fanatismo ‘esotico’ che prospera nei paesi dell’Asia e dell’Africa, quanto quello che si radica dentro ai paesi dell’occidente.

La seduzione del califfato presso i giovani occidentali si basa sulla contraddizione che da una parte vede l’attrazione dei giovani verso l’economia di mercato ma anche dall’orizzonte ideologico del fanatismo religioso, che promette valori antagonisti a quelli del materialismo.

Caroline Fourest , giornalista e scrittrice francese sceglie un titolo interessante per il suo intervento: secolarismo contro fanatismo. Anche nel suo paese esistono frange di sinistra che abbracciano il relativismo culturale per giustificare i crimini islamici come una difesa dal capitalismo. Il suo discorso chiama in causa anche la stampa, che spesso getta olio sul fuoco, dando voce ai fondamentalisti quando scoppiano i casi di ‘blasfemia’. “Spesso, sostiene, si confonde la critica con l’islamofobia, e si assimilano il femminismo e la lotta all’omofobia come contrari alla fede. La parola secolarismo è importante, in Francia e Italia si chiama laicità  e significa vivere in paesi dove la religione non detta legge tra gli umani, e non entra nelle relazioni tra persone e nello spazio pubblico. Oggi, tra tutte le religioni rivelate quella più pericolosa è l’islam perché nei paesi dove è religione dominante non c’è mai stata una separazione tra stato e religione e quindi la legge è quella divina, mentre questa differenza è stata superata nei paesi cattolici”. Definisce ‘circo maledetto’ quello nel quale spesso l’occidente si trova a scegliere tra il ‘minore dei mali’ nei  vari gruppi estremisti per ‘liberare’ i paesi oppressi dalle dittature, un altro problema politico ben presente anche in Europa.

Altro tema fondamentale che nomina è la questione dei moderati: si tratta di un falso problema. Di fronte alla laicità non si può essere moderati o non moderati: o si è laici o non lo si è, perché essere per il secolarismo è essere per una legge umana uguale per ogni essere umano. “Promuoviamo una società moderna nella quale c’è un posto per ogni persona, e dove c’è posto anche per chi crede. Ricordiamoci che nelle società dominate dal fanatismo non c’è posto per chi non crede”- afferma.

Sue Cox attivista femminista inglese che si occupa di violenza domestica, apre una finestra sugli abusi dei sacerdoti cattolici. La sua presentazione è vivace e costellata da immagini e vignette (alcune anche satiriche) che illustrano la condizione arretrata dal punto di vista culturale dell’iconografia legata alla religione cattolica. “Quando vedete l’immagine sorridente del papa fate attenzione: non credete a quello che vedete, perché quello che vedete non è ciò che avrete”. La sua è l’esperienza forte di chi è sopravvissuto agli abusi, eppure è capace di fare ironia e sorridere quando parla della realtà oscurantista della chiesa cattolica in molti paesi del mondo, così come inquietante è l’appello della parlamentare turca Safak Pavey , che testimonia come nel suo paese si stia rinnovando con forza negli ultimi anni il revival del tradizionalismo religioso.

Sultana Kamal, avvocata del Bangladesh, racconta il difficile percorso del suo paese nel costruire la democrazia laica, fronteggiando il regimedel vicino Pakistan dominato dall’islamismo. “Non vogliamo essere identificati con la religione o l’ideologia, dice- Riconosciamo il secolarismo come una delle basi della costruzione della nostra cultura. Ma sappiamo bene che il patriarcato e il fondamentalismo lavorano insieme contro i diritti universali, in particolare contro le donne”.

Nadia El Fani, filmaker tunisina di Laicitè Inshalla critica il presidente Francoise Holland che, come primo atto nella visita al suo paese (la Tunisia ha di recente cambiato la Costituzione introducendo il nome di Dio) ebbe a dire che ‘l’islam è compatibile con la democrazia’, accreditando così una visione di tutti i Tunisini come fedeli e incapaci di scegliere la laicità come orizzonte necessario.

“Non serve affermare che l’islam è una fede democratica: sfortunatamente chi è laico e vive nei regimi islamici è sempre in svantaggio, perché rispetto ai credenti non ha credito presso chi propugna un mondo governato dalla fede in dio” – dice-. Negli spezzoni del suo film mostra le dispute nelle quali i fondamentalisti smettono di discutere e inneggiano ad allah e gli studenti islamici  interrompono convegni, commedie  e momenti artistici.

“I nostri sono islamisti intelligenti: hanno denaro, usano i social media e quindi raggiungono i giovani, per questo sono pericolosi e pervasivi. I fondamentalisti non vogliono la democrazia, io sono democratica, per me loro possono esistere, ma dobbiamo sapere che queste persone usano la democrazia per costruire la teocrazia. Dite ai giovani che possono credere nel paradiso, ma che è una menzogna se sulla terra c’è un mondo ineguale e ingiusto, come quello che chi crede nel paradiso realizza brandendo dio”.

 

 

 

(Fine prima parte, prosegue)