Lidia Menapace dal Movimento femminile DC al femminismo
1.Esponente democristiana, intellettuale cattolica
Nata a Novara il 3 aprile 1924, giovane partigiana senz’armi, Lidia era stata impegnata nella Fuci e poi iscritta alla DC. A 21 anni ottenne la laurea a pieni voti in lettere moderne all’Università Cattolica di Milano, diventando docente di lettere nei licei e lettrice di Metodologia degli studi letterari. Trasferitasi a Bolzano, nel 1964 fu la prima esponente femminile in giunta dell’amministrazione provinciale: assessora democristiana per gli affari sociali e la sanità e impegnata nel Movimento femminile del partito
Per il mondo cattolico erano gli anni della stagione conciliare. E la Pacem in terris di Giovanni XXIII definiva l’ingresso della donna nella vita pubblica come uno dei famosi ‘segni dei tempi’, assieme alla fine del colonialismo e all’ascesa delle classi lavoratrici, che il credente doveva saper leggere alla luce della fede. Si superava infatti il divieto alla coeducazione, unificando i rami maschili e femminili dell’Azione cattolica, mentre la santità veniva vista come una chiamata di tutti i credenti in funzione del battesimo. È vero peraltro che nel suo messaggio conclusivo alle donne, l’8 dicembre del 1965, il Concilio risultava ancora in bilico tra tradizione e rinnovamento, chiamando le donne al compito di «salvare il focolare » e al ruolo di ispiratrici che sanno dare agli uomini la forza fino al martirio». Sembra così di poter dire che non fu tanto il Vaticano II a sollecitare tra le cattoliche una presa di coscienza per cambiare la condizione femminile, quanto piuttosto il contesto socio-politico complessivo. Quello delle relazioni di coppia stava emergendo come uno dei terreni più spinosi e complessi per le credenti: nel ’68 la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae veniva infatti a smentire l’aspettativa generale di trasformazioni nella dottrina e nel Magistero su questo terreno, con effetti sconcertanti soprattutto per tante giovani coppie.
Intanto dal mondo giungevano notizie come la vicenda della teologa Mary Daly, autrice nel 1968 de La Chiesa e il Secondo Sesso, in seguito al quale fu licenziata dal Boston college dei gesuiti; in Francia nasceva nel 1970 un vivace gruppo, “Femmes et hommes dans l’Eglise”, che esiste ancora. In Italia nello stesso anno si ha la nascita del gruppo “La donna e la chiesa” di Milano, che ruotava intorno a Roberta Fossati e nel 1972 nasceva il gruppo milanese Promozione della Donna, con il programma di non stare alla finestra di fronte alla domanda di cambiamento del femminismo.
2. La rivolta
Nell’autunno del ’67 c’era stata l’occupazione dell’Università cattolica, dove Menapace insegnava e che lei aveva sostenuto «con molto calore», perdendo poi l’incarico. Era stata anche sospesa per quattro mesi dal Consiglio nazionale della DC per aver partecipato – senza chiedere l’autorizzazione – a una tavola rotonda su terrorismo e Alto Adige e una seconda sulla pace in Vietnam, insieme ad un dirigente del PCI. In lei maturava così la decisione di uscire dalla DC, dove anche il Movimento femminile le sembrava ormai inutile. Le sue idee erano ormai fortemente segnate dall’incrocio tra dissenso cattolico e marxismo, tanto che dopo l’uscita dalla DC, nel luglio del ’68, venne l’adesione al gruppo de ‘il manifesto’. La rottura avveniva sulla base di un grande interesse per il marxismo, definito come «il nuovo aristotelismo, la nuova filosofia del buon senso», pur segnalando la necessità di liberarlo da alcuni equivoci sui fenomeni religiosi.
La sua prima riflessione di stampo femminista sulla condizione femminile, è forse l’articolo Gli angeli del frigorifero[1], che in qualche modo riecheggia la più nota espressione di ‘angeli del focolare’. Qui Menapace riflette sulla necessità di formare la coscienza femminile all’analisi dello sfruttamento insito nel sistema economico-produttivo, cioè la coscienza di appartenere al proletariato. Il sistema capitalistico, infatti, secondo Menapace contempla al massimo due percorsi per la componente femminile: da una parte, quello della donna che passa dalla monotonia dei lavori domestici alla noia dei lavori d’ufficio o alla ripetizione dei gesti in fabbrica; dall’altra, quello della donna consumatrice inconsapevole.
Il dato più interessante è che Menapace non evita di interrogarsi sul nesso tra questo sistema e la tradizione cattolica: perché il mondo cattolico si riconosce in tale modello -si chiede-:
forse la ragione per la quale il mondo cattolico non rifiuta decisamente l’immagine e la collocazione della donna funzionali al neocapitalismo è nel fatto che la chiesa ha alimentato per secoli, e ancora oggi, l’idea della funzione al massimo ‘vicaria’ della donna, non già autonoma, storicamente definita e varia quanto possono essere le persone[2].
È già chiara, quindi, l’adesione alla domanda di libertà e autonomia femminile, ma nella convinzione del necessario legame tra tutte le forme di oppressione prodotte dal sistema neocapitalistico, compresa la lotta femminile, perché tutti gli sfruttamenti sono collegati e «vanno legati anche nella lotta per liberarsene». Non poteva bastare la lotta in termini di diritti civili, come ribadisce nel volume Per un movimento politico di liberazione della donna, del 1972, che raccoglie una serie di saggi prodotti nell’ambito del femminismo americano: per favorire un progetto politico che consentisse una transizione verso una condizione femminile più libera, era necessario raccoglierne in unità tutti gli aspetti e non limitarsi ad una maggiore richiesta di diritti. Ecco perché serviva un movimento politico per la liberazione femminile, cioè un movimento che convergesse in un’organizzazione politica complessiva nella quale fosse posta al centro la liberazione delle donne proletarie, come anticipazione e momento esemplare della liberazione piena di tutte le donne.
[1] L. Menapace, Gli angeli del frigorifero, “Settegiorni”, II, n. 80, 22 dicembre 1968.
[2] L. Menapace, Gli angeli del frigorifero.