L’importanza dell’imene (nel 2020)
Liberté, fraternité, égalité, magari virginité?
Da circa due decenni in Francia infuria un dibattito, che nel 2021 potrebbe trovare sbocco anche in una legge, al centro del quale c’è la lotta al separatismo su base religiosa, (ovvero la visione multiculturale secondo cui le comunità di credenti potrebbero chiedere, e ottenere, deroghe legali alla legislazione universale secondo precetti religiosi) il cui cuore è, come al solito, il corpo femminile e, nel dettaglio, proprio la verginità.
Così sottolineano, nel loro Anatomia dell’oppressione le due autrici e attiviste Femen Inna Shevchenko e Pauline Hillier, il ruolo tuttora importante della ‘purezza’ sessuale femminile: “Il culto della verginità è un tema ricorrente delle ossessioni religiose, all’origine di molte violenze contro le donne. Violenza morale prima di tutto: un provvedimento arbitrario a non disporre liberamente della sessualità, e poi violenza fisica. Test di verginità, mirati per deflorare le vergini, rapimenti di ragazze, operazioni chirurgiche per ricostruire l’imene e crimini d’onore dovrebbero riparare l’affronto familiare per la (presunta) perdita della verginità fuori dal matrimonio”.
Ruota tutto intorno a quest’organo vestigiale, l’imene appunto, il surreale ma attualissimo scontro francese: è infatti in discussione la legittimità del certificato, o test, di verginità. Un documento, redatto dal personale medico di ginecologia, che comprova la verginità di una donna tramite l’esame del suo imene.
Raramente richiesto in Francia è però una pratica talvolta usata alla vigilia di un matrimonio religioso dalle famiglie o dallo stesso sposo, in maggioranza negli ambienti integralisti islamici. Un pezzo di carta che, come sottolinea la comunità scientifica, non ha alcun valore visto che l’imene si può lacerare anche se la donna non ha mai avuto rapporti (per esempio con alcune pratiche sportive o l’utilizzo degli assorbenti interni) e una donna su due, secondo alcuni studi, proprio non lo ha.
Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, dopo aver annunciato qualche mese fa l’intenzione di abolire questa pratica, ha anticipato di voler preparare un progetto di legge che non solo la metta al bando ma preveda anche sanzioni penali per chi continuerà a farla, richiamandosi ai valori della Repubblica e alla laicità.
Ma le obiezioni più problematiche al progetto di legge non arrivano dagli ambienti tradizionalisti, quanto piuttosto da una parte del mondo medico progressista e femminista.
In una lettera su Libération un gruppo di donne e uomini di medicina, tra i quali la presidente del Collettivo contro lo stupro e il presidente di Ginecologi senza frontiere scrivono che si tratta di “una pratica barbara, retrograda e sessista e in un mondo ideale bisognerebbe rifiutarsi di rilasciare un documento del genere. Ma nel mondo reale penalizzarne la redazione è un controsenso. Possiamo essere portati a fornire un certificato di verginità se la giovane ha bisogno di un documento che attesti che è vergine perché si smetta di tormentarla, per salvarle la vita, per proteggerla se è indebolita, vulnerabile o minacciata nella sua integrità o dignità”.
Come spesso accade se si tratta di corpo delle donne si invoca la preminenza della real politique rispetto ai principi di uguaglianza e giustizia: i senza se e senza ma riservati a tutto quello che concerne i diritti umani sciolgono la loro (presunta) universalità di fronte al sesso femminile. Eppure già nel 2018 l’Organizzazione mondiale della sanità aveva chiesto il bando della certificazione sulla verginità, che fruga in modo violento tra le gambe delle donne, talvolta bambine e adolescenti, per ‘preservare’ il sangue che si vuole ottenere come trofeo fra le lenzuola immacolate. Una forma di controllo sociale insopportabile che, ricordano ancora le autrici di Anatomia dell’oppressione, attesta come “far sanguinare una ragazza la prima notte di nozze rimane una vittoria gratificante, una piccola soddisfazione per l’ego e la virilità. Alle donne importa meno rimanere pure per adattarsi al modello della vergine con bambino, mentre per gli uomini sembra di fondamentale importanza impadronirsi di questa purezza, appendendosela al collo come un dente di squalo”.
Ma di purezza sessuale delle donne, controllo patriarcale dei corpi e abdicazione all’universalità dei diritti da parte del mondo progressista e femminista di fronte al ‘rispetto delle tradizioni religiose’ si parlò anche in Italia, purtroppo per una pratica ancora più cruenta.
Nel 2004 infatti, due anni prima dell’entrata in vigore della legge che punisce ufficialmente le mgf (mutilazioni genitali femminili) praticate sul suolo nazionale, un ginecologo somalo propose una cerimonia alternativa, una puntura con fuoriuscita di sangue dal clitoride, per permettere alle donne di origine africana che volessero fare la mutilazione alle loro figlie di essere in qualche modo in pari con la tradizione, evitando però il peggio alle bambine.
Attenzione: non si parlò di fare la puntura in uno sperduto villaggio africano per scongiurare l’escissione, ma di farla qui, in Italia.
Il fatto stupefacente fu che una parte di intellettuali italiani non disdegnò la proposta, in base al principio multiculturale di ‘accoglienza’ delle tradizioni e usanze altrui.
Vedremo come si evolverà il dibattito in Francia, ma il fatto che si usi l’argomentazione reale versus ideale non fa ben sperare. Certo: è più facile firmare un pezzo di carta che attesta che l’imene è intatto, sentendosi in pace per il fatto di rispettare le altre ‘culture’, e così facendo inevitabilmente rafforzando il ruolo patriarcale decisionale delle famiglie piuttosto che aprire faticosi, e magari pericolosi, conflitti politici che arginino il relativismo dei fondamentalismi che grava sulla libertà delle donne. Alla faccia dell’uguaglianza dei diritti, però.