L’Italia Unita di Enrichetta
Vi racconterò la storia di una monaca nel periodo del Risorgimento: si chiamava Enrichetta Caracciolo di Forino. Nacque a Napoli nel 1821. Di nobili origini era la quinta di sette figlie in una famiglia che per generazioni usava monacare le figlie tranne le primogenite.
Alla morte del padre viene affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre che, avendo deciso di risposarsi, dà inizio alle pratiche per far entrare Enrichetta nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due sue zie.
Nel 1846, incoraggiata dal diffuso clima di speranza nel “papa liberale”, Enrichetta, che non accetta la vita claustrale, presenta a Pio IX la prima di una serie di istanze volte ad ottenere lo scioglimento dai voti o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute.
Nel chiuso del convento, Enrichetta non fa che pregare per “la caduta della tirannide e per il trionfo della nazione”. Si procura così la fama di “rivoluzionaria, aggregata a società segrete, settaria, eretica”. Compra i giornali dell’opposizione, che legge ad alta voce in convento, approfittando della concessa libertà di stampa.
Dopo varie vicissitudini riesce finalmente a smonacarsi e la sua vittoria coincide con l’ingresso a Napoli di Garibaldi in seguito alla fuga di Francesco II (1848).
Recuperata la libertà si sposa con un patriota napoletano.
Era decisa a denunciare lo stato monastico imposto a tante giovani donne “residuo di barbarismo orientale” come scriverà in un libro di memorie apprezzato anche dal Manzoni.
Vi propongo la sua storia in prima persona utilizzando, naturalmente, parte dei suoi scritti ma rielaborandoli sul filo della fantasia.
“Cospirazione? Lesa Maestà? Congiura? Monache liberali? Ma che dite? Io, il loro Masaniello? Lettere intercettate? Documenti parlanti? Prove e indizi ? Miserere! Mi discolpavo. Ma, dentro, fremevo di soddisfazione.
Perché, a dire il vero, i sospetti della polizia borbonica non erano ingiusti. In un ripostiglio del mio baule era nascosto qualcosa, che sfuggì alla perquisizione dei preti: un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale e una pistola.
Non voglio sembrarvi presuntuosa, però… Avendo avuto dalla natura bollenti passioni, immaginazione e una forte volontà capace di lottare contro le seduzioni del sentimento e controcorrente, ho mirato alla reintegrazione della libertà nella mia terra natia. Esecravo l’aquila imperiale e i principotti suoi satelliti e la depravazione del nostro sacerdozio e la strisciante cortigianeria dei nostri baroni con quell’odio stesso, odio inesorabile, con il quale i Saraceni furono detestati dagli Spagnuoli e i Turchi da’ Greci e i Russi da’ Polacchi e la pirateria barbaresca da tutta quanta la cristianità. Sorsero in me momenti d’esaltazione e d’entusiasmo, nei quali pensavo che se tutte le donne sentissero a modo mio, neppure una sola oste barbarica sarebbe mai calata in Italia, od almeno l’Italia l’avrebbe da lungo tempo finita coll’opera devastatrice dei tiranni.
Ora siamo qui, insieme, e possiamo figurarcela quella magica visione, perché io sempre me la sono figurata, al buio nella mia cella, l’Italia libera: dal golfo di Taranto alle lagune di San Marco. Ditemi, ve la figurate anche voi, vero, questa visione, che domani sarà chiamata realtà? È finita. Menzogne, simulazioni, ceneri, notte, tutto è scomparso: l’Italia esiste, l’Italia è Italia!
Sapete? Pingui, fresche, rubiconde, piene di brio e di beatitudine erano la maggior parte delle altre mie compagne: la spensieratezza, l’ozio, l’apatia conferivano loro, come il pollaio conferisce alle galline. Io invece diventavo sempre più pallida e smilza: le gote mie si affossavano, gli occhi si spengevano, i capelli mi cadevano a ciocche.
Mi dicevo: Ora il corriere sta consegnando la mia supplica di essere smonacata, ora Pio IX la sta leggendo con animo disposto al favore, ora sarà fatta la grazia, firmato l’atto, sigillato il foglio, passato alla rispettiva autorità perché lo mandi a Napoli: fra due giorni sarà di ritorno il corriere… Che illusa!
Il canonico non sapeva darsi pace di questo mio passo, e cercava d’infiacchire la poesia delle mie speranze…
‘San Benedetto non lo permetterà. Chiunque ha indossato una volta il suo abito, non uscirà più di qua dentro né viva né morta’.
Morta?
Chiarina aveva il volto di un angioletto. Era impossibile, anche alle persone del suo sesso, averla veduta una volta alla sfuggita e non sentir la voglia di contemplare i suoi sguardi incantevolmente languidi. Quegli occhi mandavano un tale influsso di misericordia, che avrebbero placata all’istante qualunque collera. Ma se vago aveva il sembiante, era però un poco curva, storpiata e malaticcia. Era tormentata da tosse ostinata e da palpitazioni di cuore frequentissime che le rendevano affannosa la respirazione e velata la voce.
Le fu posto un busto colle stecche di ferro. Povera Chiarina! «Signora Enrichetta, per pietà, allargatemi il busto: io mi sento soffocare».
La portavo in un luogo appartato dove, di soppiatto, le allentavo la stringa; la sera però dovevo tornare a stringerla.
Questa creatura piena di candore e d’amorevolezza, maltrattata dalla natura e tartassata dal destino, nutriva un affetto particolare per gli animali, specialmente per le rondini. Seduta nel vano della finestra, col capo appoggiato alle braccia incrociate, passava parte della mattinata a seguire le loro aeree scorrerie.
«Esse almeno se ne vanno d’autunno… E noi?».
Le altre giovani monache la trattavano duramente. Quando l’udivano recitar l’uffizio nel coro, si facevano beffe del suo affannoso respiro: «Che seccatura!».
Una mattina andai a svegliarla: pareva immersa nel sonno. La chiamai per nome, la tornai a chiamare: non diede risposta. La scossi: non si muoveva.
Gli omicidi non si commettono soltanto col pugnale o col veleno. A forza di comprimerlo il cuore di Chiarina si era frantumato…
Volete sapere una grande verità? Ora che sono scappata dal convento comincio a “sentire” veramente la religione. La fede, quella fede che io ho visto deturpata in pratiche di pietà imbecille, vituperata nell’odio per tutto quello che non portasse in sé un’impronta ieratica, quella fede la sento rifluire in me adesso che sono libera in gagliardi zampilli.
La mia ragione è sgombra dalla negra caligine che l’offuscava. Il mio cuore, rincantucciato negli ultimi ripostigli, inselvatichito nell’isolamento sta riprendendo il suo ritmo…
I miei nuovi comandamenti? Eccoli: gettarsi in grembo alla Natura, sentendola davvero madre e sorella, eliminare con religioso stoicismo dalla propria vita tutto ciò che è soddisfazione delle vanità, resistere con ostinazione al superbo e al malvagio, farsi umile e piccola con lo sventurato, venerare il bene, giudicare severamente i prepotenti, non credere in altro Dio che in Colui che vuole fra gli uomini giustizia ed uguaglianza.
Questa è la religione che proclamo dal mio angolino e che spero di predicare ai miei dodici apostoli, sotto il tiglio del mio giardino. Quanto all’amore, avrà un suo libro e un suo corso…
Quando finalmente riuscii ad abbandonare il convento, il mondo rotolò per terra e dapprima barcollai…
Da lunghissimo tempo disabituata alle grandi folle, al flusso e riflusso della piazza, a quel clamoroso favellio, all’assordante frastuono di ruote, tanto caratteristico qui a Napoli, credetti di essere, per non so quale prodigio, risalita dal regno delle ombre al mondo dei vivi.
Schiarita mi sentii la vista, dilatati i polmoni, rasserenato l’animo.
Non vedevo più davanti a me quell’enorme muraglia della clausura.
I miei occhi si infrangevano adesso piacevolmente verso la gente, le carrozze, i venditori ambulanti, le truppe dei soldati…
Tutto mi parve nuovo, tutto singolare e curioso: l’aria, il suono, la luce, il movimento, e perfino le sembianze de’ miei simili. La mia stessa persona mi parve una pianta esotica, venuta da un lontanissimo paese…
Né temerò di passare per esagerata, se, per dipingere quella fase singolare del mio stato interiore, confesserò d’aver più volte interrogato lo specchio intorno alla mia personale identità.
Vicino! Vicino! Ancora più vicino voglio andare.
Vi amo tutte. Voi che siete qui e voi che siete alle finestre, nelle piazze, nelle strade, ai balconi, perfino sui tetti a guisa di gatto.
L’aria di San Gregorio spirava il tanfo delle stanze mortuarie: atmosfera carica di miasmi mefitici, che, da ogni parte aspirata, infiltrava nell’organismo più o meno acrimonia, asprezza e cattiveria.
Guardatemi! Sono tornata all’aria libera, sana, ventilata, alla soave comunione dei sensi, alle speranze, alle commozioni patrie. Sono oggi restituita all’amplesso dell’umanità.
Sono tornata ad essere io e mai come ora sono felice.
Per tutto questo, io e solo io, Enrichetta Caracciolo di Folino, ho diritto a baciarlo per prima.
Subito dopo, sull’altare, deporrò il mio velo da monaca. Per sempre. Senza rancori. Il passato è alle spalle. Nostro è il futuro.
Fatemi largo, per favore!
Lo vedo! Lo vedo!
E’ pallido… Deve essere molto stanco. Ha tutto il diritto di essere stanco. Di essere un uomo come gli altri…
I capelli biondi… nel sorriso un poco di tristezza… come somiglia a Gesù…
Mi sento in cielo. No, in Paradiso!
Donne, i prodi della Grecia salivano come semidei nell’Olimpo; quelli dei nostri tempi hanno statue in ogni loco, ma nessun eroe antico o moderno avrà in vita sua tanti baci quanti in questo giorno noi daremo a Garibaldi.
All’assalto, cittadine del mondo!
Fatemi largo! Lo voglio baciare!