Dove c’e’ guerra, non c’è verità e soprattutto non c’è più diritto al dissenso. Le voci critiche vengono ignorate o tacitate.
Ogni prospettiva viene falsata. Emergono soltanto le “verità” ufficiali, e persino le immagini trasmesse possono essere manipolate per ingannare l’opinione pubblica.
Questo l’ho capito molto bene durante la guerra jugoslava, grazie al
rapporto diretto con oppositrici e oppositori alla guerra.

Ecco perche’ e’ sempre molto importante dare eco al lavoro degli
attivisti contro la guerra, far circolare i loro appelli, raccontare
le loro posizioni. {{The Other Israel}}, un gruppo di pacifisti
israeliani, {{nel primo giorno di guerra ha organizzato a Tel Aviv una coraggiosa manifestazione contro il massacro di Gaza}}. Allego qui di seguito la traduzione del loro resoconto inviato in rete.

Non e’ certo facile essere pacifisti in Israele, eppure i pacifisti ci sono e hanno bisogno della nostra riconoscenza e del nostro sostegno. Nulla puo’ giustificare la violenza, la guerra e i massacri, nessuna rivendicazione politica, statuale o personale. Per uscire da questa orrida spirale, che insanguina il Vicino Oriente da oltre mezzo secolo, l’unica strada da seguire forse e’ quella del Sud Africa, dove la riconciliazione e’ potuta avvenire per mezzo della verità e del riconoscimento delle reciproche responsabilita’. Ma Olmert non e’ Mandela…

Dietro la tragedia palestinese ci sono risoluzioni Onu ignorate per oltre cinquant’anni, promesse non mantenute, e un’incolmabile sproporzione: da una parte uno stato, dall’altra un ghetto; da una parte il benessere, dall’altra la miseria, la fame, le malattie, l’assenza di medicine, la disoccupazione…

Nessuna popolazione dev’essere condannata a vivere in una gabbia, come oggi vivono i palestinesi, fra muri, diaspora e campi profughi, e nessuno piu’ degli ebrei puo’ saperlo.

{{Manifestando a Tel Aviv contro la guerra}}
{Articolo di {{Adam Keller}} per “The Other Israel” dal titolo “Guerra a
Gaza. E’ cominciata”, datato Tel Aviv, 27 dicembre, poco prima di
mezzanotte}

Questa mattina, alcuni di noi si sono alzati ansiosi di ascoltare il
primo notiziario sperando ancora nell’impossibile. Questa mattina,
piu’ di duecento cittadini di Gaza i cui nomi probabilmente non
conosceremo mai si sono alzati senza immaginare che fosse la loro
ultima mattina. E anche nella citta’ di confine israeliana di Netivot il cinquantottenne Beber Vaknin si e’ alzato ed e’ andato a passeggiare per le tranquille strade del weekend nella sua cittadina natale, senza sapere che molto prima del tramonto sarebbe diventato un numero nelle statistiche…

{{ Il bombardamento e il massacro sono arrivati come una scioccante
sorpresa alle 11,30 del mattino}}, anche se non c’era in realta’ ragione alcuna di sentirsi sorpresi. In preda alla rabbia e all’indignazione abbiamo febbrilmente scritto dure parole di protesta e denuncia e le abbiamo indirizzate a tutti gli altri attivisti, ai media e a chiunque in Israele e nel mondo intero fosse possibilmente intenzionato ad ascoltare: “La guerra di Gaza e’ una brutale pazzia di un governo in bancarotta”, “Barak conduce la sua campagna elettorale per mezzo di stragi da entrambi i lati del confine”.

A tempo di record, un incontro di protesta viene suggerito dalla
{{Coalizione delle Donne per la Pace}} e velocemente raccolto da Hadash, da Gush Shalom, dagli anarchici, da Marabut e anche dalla base di Meretz. Il messaggio si diffonde fra tutti per passaparola, per telefono, per e-mail, sms e Facebook: “Fermate la guerra. Fermate la guerra. Troviamoci alle 18 per un’assemblea aperta in piazza della Cineteca a Tel Aviv. Corteo alle 19,30. Vieni tu, venite tutti”.

Sono stati contattati amici sia a Gaza sia a Sderot, entrambe sotto
le bombe, e da entrambe e’ arrivato il loro sentito sostegno a ogni
tentativo di fermare la follia. S’improvvisano trasporti da Haifa e
Gerusalemme, e persino dalle citta’ arabe di Tyra e Nazareth alcune persone vengono a Tel Aviv, nonostante vi siano cortei anche nelle loro citta’.

La polizia in qualche modo viene a sapere della cosa. Molto prima
delle 18 la Cineteca e’ circondata da tutti i lati, polizia regolare
in tenuta antisommossa, reparti a cavallo e un mucchio di macchine
di pattuglia che scaricano agenti in continuazione. “Guardate,
questi non hanno pistole, hanno fucili automatici. Vogliono portare
la guerra anche qui?”, sussurra una ragazza con indosso una
{{maglietta dell’Associazione per i diritti degli animali}}.

Da una parte, {{una dozzina di giovani prepara dei cartelli}}: “Fermate
il massacro”, “La guerra e’ di Olmert, le vittime sono nostre”, “No
all’omicidio degli innocenti”, “Noi israeliani diciamo: il governo
di Israele commette crimini di guerra”, “Intervento internazionale
ora”, “Europa ferma la guerra”, “Livni, l’omicidio non e’ femminista”, “Il comandamento dice: non uccidere”.Uno slogan ripetuto di frequente, “Questa non e’ la mia guerra”, e’
scritto in arabo, ebraico, inglese o in una combinazione dei tre.

Nel frattempo, all’interno del palazzo della Cineteca, ha luogo un
evento organizzato molto tempo prima. La comunita’ dei rifugiati
africani in Israele chiede alle autorita’ di dare asilo ai rifugiati
e di non deportarli. E’ arrivata {{una giovane donna di colore a
parlare dei bambini del Congo}}, dove sono forzati a lavorare nelle
miniere e a maneggiare materiali cancerogeni. Le circostanze
non hanno permesso di entrare per dare a questa causa l’attenzione che merita.

Alle 19 in piazza della Cineteca ci sono {{piu’ di mille persone}}, più di quante ci si potrebbe aspettare in Israele durante le prime ore di una guerra, con la febbre bellica di cui sono responsabili i
media israeliani.

Formati i cordoni e spiegati gli striscioni, i percussionisti danno
il via alla musica, ma la polizia blocca tutte le uscite. Uno
scontro su larga scala sembra inevitabile ma gli organizzatori
gridano: “Fermi, aspettate”, e cominciano a negoziare.

Dopo circa venti minuti di tensione, nella meraviglia di tutti, gli agenti si dividono per lasciar passare i manifestanti. L’accordo con la polizia e’ che il corteo si dirigera’ verso il Ministero della Difesa evitando di interferire con il traffico sulla strada principale. Gli abitanti della normalmente tranquilla via Sprintzak guardano giu’ dai loro balconi il flusso in movimento continuo di manifestanti che gridano: “Ebrei e arabi si rifiutano di essere nemici”, “A Gaza e Sderot i bambini vogliono vivere”, “La guerra e’ un disastro, la pace e’ la soluzione”, “Fermiamo la guerra, torniamo alla tregua”, “Facciamo tacere i fucili, salviamo la gente”, “Barak, Barak, quanti ne hai uccisi oggi?”, “Le stragi non ti daranno il potere”, “Il sangue scorre per il prestigio dei ministri”, “Il sangue scorre per i
sondaggi dei partiti corrotti”, “No alla guerra, torniamo alle trattative”.

Persino “No alla guerra, si’ alla pace” che di solito suonerebbe come un truismo naif, oggi suona come {{un messaggio netto e radicale}}.
Per un tempo ragionevole la polizia non interviene, ma all’angolo di
via Kaplan d’improvviso una carica a cavallo va direttamente contro la folla.

Alcune centinaia di metri sulla destra si vedono i cancelli del
Ministero. “Signore e signori della stampa, il nostro attacco di
oggi su Gaza e’ stato chirurgico e precisamente mirato”, la voce di
Olmert alla radio che alcuni attivisti hanno acceso viene trasmessa
dalle torri dall’altra parte della strada. “Bugiardo, criminale di
guerra”, sale un urlo in risposta, e molti giovani cercano di
sfondare i blocchi della polizia ma sono immediatamente trascinati
nelle auto delle pattuglie in attesa. Va avanti fino alle 21,30, quando si annuncia: “{{Abbiamo terminato
qui per oggi. Ma continueremo a tornare finche’ sara’ finita}}. Chiunque voglia spendere qualche altra ora, puo’ unirsi a noi per
picchettare la stazione di polizia dove sono riuniti i nostri amici”.

Sull’autobus, andando verso casa, la radio fra i vari servizi di
guerra dal sud trasmette una breve notizia sulla manifestazione. Il
numero di partecipanti viene indicato come duecento… Ovviamente e’ un servizio ostile, un tentativo di sminuire l’opposizione alla guerra. Ma forse non ci si dovrebbe scoraggiare troppo, essendo almeno stati nominati, in un giorno di euforia di guerra orchestrata dai media.