Lo storico Luca Bravi e Ascanio Celestini attore, regista e poeta chiedono di decostruire l’antiziganismo
Il censimento di rom e sinti è un antico adagio che va oltre quello terribilmente noto del ’38. C’è stato quello dei nazisti e prima ancora quello del capo della polizia di Monaco nel 1905. In Svizzera è durato fino agli anni ’80 e serviva per estirpare il bacillo del nomadismo dai bambini di queste comunità con l’allontanamento forzato dalle famiglie, l’elettroshock, la sterilizzazione. Intanto in Italia nascevano i campi nomadi, nonostante l’80 per cento di rom e sinti non lo siano da molto tempo, come soluzione per rieducare persone considerate con quoziente intellettivo basso. «Non c’è nessun bisogno del censimento, abbiamo urgente necessità di decostruire l’antiziganismo che è l’odio che costruiamo verso rom e sinti facendone il nostro capro espiatorio per tutti i mali – scrive Luca Bravi, uno dei più bravi studiosi di storia dei rom e dei sinti in Europa, in particolare dell’internamento, altra pagina rimossa dai paraocchi del razzista democratico – Impariamola la parola “antiziganismo” e mettiamola accanto ad “antisemitismo”… Ci serve un processo culturale che smonti gli stereotipi…»
articolo di Luca Bravi*
Il governo Conte (o come più pare evidente il governo Salvini) ripropone in questi giorni l’antico adagio del censimento dei rom e dei sinti. Secondo il ministro dell’interno nessuno ha più fatto niente dopo Maroni (le cui azioni di censimento sono state dichiarate improprie ed incostituzionali). Molti invece avevano fatto in Europa prima di lui ed è necessario riproporla questa storia del nostro continente nell’ultimo secolo, per capire il dato più importante: che effetto hanno prodotto questi censimenti? Hanno mai migliorato davvero la vita di queste persone?
Dobbiamo prima connotare meglio chi siano i rom, perché altrimenti si producono immagini distorte: in Italia, soltanto il 20 per cento di rom e sinti vive nei campi nomadi, mentre l’80 per cento vive esattamente come il resto della popolazione italiana ed è scarsamente visibile ai nostri occhi, perché evita di dichiararsi rom o sinto per non doversi difendere dai pregiudizi (voi lo dareste lavoro ad una persona che si dichiara rom? il 96 per cento della popolazione italiana non lo farebbe); questa popolazione in Italia conta tra i 160mila e le 180mila persone, quattro su cinque non stanno nei campi eppure c’è il costante richiamo a considerarli solo un popolo di ghettizzati; impareremo che è l’effetto dei nostri stessi censimenti che rappresentano un po’ la profezia che si autoavvera, perché con i paraocchi del razzista democratico, noi diciamo “rom” e pensiamo “campo nomadi” oltre a ladro, delinquente ecc.
Il primo censimento del Novecento lo attuò Alfred Dillmann, capo della polizia di Monaco che nel 1905 lo pubblicò in un libro che si intitolava Zigeunerbuch (il libro degli zingari). Vi aveva inserito tutti i nomi delle famiglie della categoria “zingari” che erano sul suo territorio, in modo che la gente potesse tenerli a distanza. Le persone seppero i nomi dei tanto odiati rom e sinti e queste comunità non riuscirono più a lavorare. Erano persone pericolose? Nominiamo una storia per tutte, quella di Ludovico Lehmann, liutaio, che a causa di quanto fece Dillmann fu costretto ad allontanarsi con tutta la sua famiglia dalla Germania muovendosi verso l’Italia, fu il capostipite di una delle comunità giunte nel nostro paese e la sua tomba (Ludovico morì nel 1908) si trova tuttora nel cimitero di Monsummano Terme (tra Montecatini e Pistoia) a ricordarci la cosa più cara che aveva quest’uomo, cioè il suo lavoro di costruttore di strumenti musicali, tanto che sulla lapide volle fosse presente il disegno di una cetra. Il censimento del 1905 colpì indiscriminatamente bambini, donne e uomini dei quali non importava affatto quale fosse il comportamento individuale, erano “zingari” e questo bastava per essere considerati pericolosi.
Nel 1933, il nazismo riprese ad interessarsi del “problema zingari” e iniziò le ricerche a partire dai dati elaborati dal capo della polizia di Monaco, prima arrestò tutti i rom e sinti per sterilizzarli perché considerati una popolazione ereditariamente malata di asocialità, poi dal 1936 inserì tutti gli appartenenti alla categoria “zingari” nei campi di sosta forzata sorti alle periferie delle città tedesche per utilizzare queste persone come mano d’opera schiava. In quei campi lavorarono Robert Ritter (psichiatra infantile) ed Eva Justin (giovane antropologa che si stava specializzando all’università di Berlino). I due proseguirono il lavoro di Dillmann attraverso ricostruzione di alberi genealogici e misurazioni antropometriche per concludere che l’inferiorità razziale di rom e sinti era dovuta a due caratteri ereditari: l’asocialità e l’istinto al nomadismo; dovevano quindi essere eliminati e dalla fine del 1942 il luogo della loro soluzione finale fu individuato in Auschwitz Birkenau.
La seconda guerra mondiale si concluse e nel dopoguerra sia Eva Justin che Robert Ritter non furono mai condannati per i crimini compiuti, tornarono indisturbati a lavorare all’interno degli uffici statali. In Svizzera intanto il dottor Alfred Siegfried, collaboratore di Ritter (condannato per pedofilia e allontanato dall’insegnamento) dal 1926 continuava a implementare il censimento degli Jenische (i cosiddetti “zingari bianchi” della Svizzera) perché si doveva estirpare il bacillo del nomadismo dai bambini di questa comunità: le procedure prevedevano l’allontanamento forzato dalle famiglie, l’elettroshock, la sterilizzazione e l’affidamento dei bambini a istituti psichiatrici o religiosi per essere rieducati; questa pratica finì sono negli anni Ottanta; d’altronde nessuno la considerò un’azione razzista e discriminatoria.
Il dati dei censimenti operati da Robert Ritter ed Eva Justin, non riconosciuti come elementi assai pericolosi per la privacy di rom e sinti nel dopoguerra (nessuno era stato condannato) passarono nelle mani del loro fraterno amico Hermann Arnold che con i medesimi dati e pubblicando foto risalenti all’epoca dell’internamento nazista preparò il suo volume più noto dal titolo Die Zigeuner (gli zingari) all’interno del quale difendeva le tesi di Ritter e Justin e invitava alla sterilizzazione dei rom e dei sinti. Non fu riconosciuto come razzista, anzi fu considerato per decenni, dagli anni Sessanta in poi, un grande esperto di “zingari”. I suoi studi indirizzarono l’azione dei governi europei (anche quello italiano) che dagli anni Sessanta costruirono politiche che volevano essere per l’inclusione dei rom, ma che produssero emarginazione. Chi intervenne in quegli anni considerava come veritiero il dato del nomadismo degli “zingari” un po’ come se per cultura queste persone si volessero muovere continuamente, in realtà avevano radici ben solide in città e paesi italiani, ma l’idea dell’istinto al nomadismo (questa volta la parola “per cultura” sostituì la parola “per razza”) era talmente diffusa che le istituzioni italiane immaginarono i campi nomadi come soluzione per rieducare persone che consideravano con quoziente intellettivo basso.
Siamo ai giorni nostri e al tentativo di trovare altre soluzioni che non siano i campi nomadi. Per trovarle pare sempre di dover partire dai censimenti etnici come se rom e sinti fossero altro da noi. In realtà li trovi già registrati nelle anagrafe delle città e quindi non c’è alcun bisogno di ulteriori numerazioni e dati. Eppure alla nostra società maggioritaria piace contarli, ma solo quelli ipervisibili, solo il 20 per cento che noi abbiamo chiuso nei campi da decenni.
Intervento di Ascanio Celestini
“Cadaveri vivi”