Annie Vivanti con la figlia Vivien

Una giovanissima Annie Vivanti aspira a colpire al cuore Giosuè Carducci. Zingaresca si definiva  e zingaresca la definirono anche gli altri.

Annie Vivanti nasce a Londra da padre italiano, garibaldino, e madre tedesca. Viene in Italia nel 1887, fa l’istitutrice, dà lezioni di piano, tenta di recitare in teatro e scrive versi. Nel romanzo “Marion”, affronta il dramma della propria vocazione artistica. La protagonista corrisponde al suo pseudonimo del momento, George Marion.

La relazione tra Annie e Carducci, iniziata tra il 1889 e il 1890, fa molto rumore, anche se Annie, nel 1892, sposa l’inglese John Chartres e ha da lui una figlia, Vivien.

L’ultimo incontro con Carducci è del 1902.

Dopo un lungo silenzio, Annie  riprende l’attività narrativa nel 1911 con “I divoratori”; seguono i ricordi su Carducci e una serie fortunata di romanzi: “Circe” del 1912, dedicato al delitto Tarnowska; “Vae victis” del 1917, “Naja tripudians” del 1921 e “Mea culpa” del 1927. Il successo non la salva dall’emarginazione in quanto ebrea. La figlia, grande violinista e il genero muoiono nel bombardamento di Londra. Dimenticata e in miseria si spegne a Torino nel 1942.

L’incontro con Giosuè Carducci avverrà così: “Un giorno, a Milano, mi trovai timida e tremante dinanzi al formidabile scrittoio dell’editore Emilio Treves. Lui teneva tra due dita sdegnose un sottile rotolo manoscritto che io gli avevo portato.

“Che roba è?”  mi chiese.

Io risposi arrossendo che erano poesie.

“Per carità! Porti via!” disse lui agitato.

“Ma come? – balbettai – Se non le ha neppur lette!”

“Leggerle? – esclamò il commendatore con la sua grossa risata – Leggerle? Crede  che noi stiamo qui a leggere poesie? Nossignora. Noi siamo qui per fare degli affari. Buon giorno!”

Forse gli apparvi piccola e triste quando volsi le spalle e me ne andai verso la porta, perché egli soggiunse come per consolarmi: “Me ne dispiace, sa! Ma ci vorrebbe, per esempio, una prefazione di Carducci.  Allora si potrebbe riparlarne”.

“Di Carducci! – pensai – Ma che cosa dice?”

Giù nella via la mia governante, Miss Gann, mi aspettava. Prima che io salissi ella mi aveva detto:

“Guarda di insistere per la copertina, che sia celeste e oro! Su ciò sii incrollabile”.

Quando mi vide tornare, domandò: “Ebbene? La copertina?” Io scrollai le spalle. 

“Ma che copertina!… Quell’uomo si è burlato di me.  Ha detto che stamperebbe il libro… con una prefazione di Carducci”.

“E chi sarebbe Carducci?”  chiese Miss Gann.

“Mah!… non so. Uno come Milton, morto trecento anni fa”.

Andammo melanconicamente a casa.

Ci venne incontro Italo, mio fratello maggiore. Quando udì la mia storia rise e disse:

“Ma prendi il primo treno per Bologna, e va’ a cercarti la prefazione”.

E così feci.

Tre giorni dopo, ricordo che faceva un gran freddo, salivo le scale ripide e strette della casa di Carducci a Bologna; la storica casa sulle mura di Porta Mazzini, dove il poeta viveva nella più austera semplicità.

Io tremavo e mi dicevo: “Mio Dio, avessi almeno letto l’Inno a Satana. Poi cercavo di consolarmi pensando che portavo un cappello che non mi stava male, riguarnito da Miss Gann per l’occasione con delle margherite celesti.

E strada facendo avevo comperato le Odi Barbare e letto rapidamente l’ode All’Aurora; potevo dunque subito citare qualche cosa.

A dire il vero avevo trovato poco di citabile, e quando suonai il campanello non ricordavo più niente. Solo mi giravano per la testa le rosse vacche del cielo… e mi domandavo esterrefatta come avrei potuto farle entrare con apparente naturalezza nella conversazione.

Un uomo aprì la porta. 

“E’  in casa il signor Carducci?” domandai.

E un panico immenso mi colse quando l’uomo rispose:  “Sì”.

“Favorisca dirgli  – balbettai  – che sono… che vengo… che arrivo…”

L’uomo mi guardava con occhio paziente.

“Favorisca dirgli che vengo da assai lontano per vederlo”  esclamai tutto d’un fiato.

“Sissignora”  ripeté l’uomo; e sparì.

Tornò, con questa enigmatica risposta:

“Il signor Carducci dice che non è re Salomone”.

“Non capisco…”  balbettai.

“Favorisca entrare” disse l’uomo-sfinge.

Entrai.

Dopo pochi istanti la porta del salotto si aprì e Giosuè Carducci apparve. Vidi che aveva una testa da imperatore romano, coperta di ricci grigi, degli occhi cupi e profondi e una bocca severa.

Senz’altro saluto mi disse: “Che cosa vuole?” 

“Buon giorno  – risposi fiocamente.  – Vorrei una prefazione alle mie poesie”.

Seguì un silenzio che mi fece sudar freddo.

“Ah! – disse Carducci finalmente –  è una poetessa? Credevo fosse la Regina di Saba”.

Nessuna risposta appropriata si presentò alla mia mente.  E tacqui.

“Dunque, una poetessa!”  ripeté Carducci.  “Che cosa ha letto?”

Mi pareva che avrebbe dovuto dire:  “Che cosa ha scritto”.

E rimasi di nuovo attonita e muta.

“Dei nostri grandi che cosa sa?”

“Ecco! era il momento di collocare le  rosse vacche ! Ma erano fuggite… Mi pareva di sentirmele galoppare sul cuore!

E dietro a loro correvano i miei pensieri, incoerenti, assurdi.

E Carducci, Professore, interrogava con fare severo: “Che cosa conosce di Dante?”

“Le illustrazioni del Dorè”  dissi, mossa da un impeto di sincerità.

Carducci rise.  Rise d’un caro riso, inaspettato e gaio.

“Segga”  mi disse.

Ed io sedetti; e gli raccontai dell’editore Treves, e di Miss Gann, e di mio fratello Italo. Tolsi anche dalla tasca le Odi Barbare comperate un quarto d’ora prima, e gli confessai che l’avevo creduto morto trecento anni fa.

Parve assai contento. Ma quando gli diedi ilmanoscritto dei miei versi il suo viso si oscurò.

“Hm! – brontolò, spiegando il primo foglio – che bella scrittura! Anch’io – soggiunse guardandomi fosco come se lo avessi già contraddetto – anch’io ho una bella scrittura”.

Poi cominciò a leggere.

Sorride ella, e dischiude de’ suoi occhi l’azzurra meraviglia…

Borbottò i primi versi nella barba. La seconda strofa la recitò ad alta voce, accompagnandone il ritmo con un gesto della mano, come per battere il tempo.

Ricordo che vi fu un momento di silenzio. Poi Carducci diede forte il pugno sulla carta:  “Perbacco! Questa creatura ha ingegno”.

E rimase immobile guardandomi con vividi occhi. Io non sapevo se dovevo dirgli  grazie! o prego! o s’immagini!, quando d’un tratto egli si levò, e tormentandosi la barba con dita impazienti mi disse brusco e subitaneo: “Addio!”

“Addio” risposi come trasognata. Ed egli mi aprì la porta. Io gli stesi la mano, e avevo voglia di piangere.

“Dove ha il manicotto?”  domandò improvvisamente.

“Il manicotto?… Non so!”  dissi, più trasognata che mai.

Carducci andò girando distrattamente per la stanza a cercarlo.

Veramente  gli spiegai  io non avevo un manicotto con me…

Egli mi fissò, truce, con le ciglia aggrottate; certamente pensava ad altro.

Con un tuffo di gioia nel cuore compresi che Carducci pensava ai miei versi, e che per loro aveva dimenticato me.

Più tardi, quando lo venni a conoscere meglio, appresi che egli era incapace di pensare a più d’una cosa per volta. Se il suo pensiero era altrove, tutto ciò che gli stava d’intorno spariva.

Molto tempo dopo, quando Treves aveva pubblicato versi… e prefazione, io dissi a Carducci:

“Professore, perché, quel giorno, chiedeste del mio manicotto?”

“Che giorno? Che manicotto?”  domandò impaziente.

Io gli rammentai che era andato cercandolo per tutta la stanza.

Ma egli si arrabbiò.

“Tu sogni –  disse. E sogni delle stolte cose. Mai ho cercato un manicotto. Non so nulla, io, di manicotti!”

In realtà, Annie,  birichina e un po’ zingara, piacque sempre al Professore.

Lo chiamava caro Orco.

L’Orco e la Zingara si rividero nel corso degli anni con buona pace dei benpensanti. Anche quando  prese marito.

Essa divenne, infatti, con gran sollievo della signora Carducci, la signora Chartres. Con il marito, un irlandese che si batteva per l’indipendenza della sua patria, tornò alla vita errabonda per diffondere in tutti i continenti la necessità di uno Stato libero d’Irlanda. Trovava rare occasioni di tornare in Italia per  rivedere l’illustre amico che le aveva dato amore e celebrità e si preparava ormai a essere per lei una specie di padre. Divenne invece una specie di nonno quando insieme a John Chartres  ritornò per  presentargli la figlia Vivien, una bambina prodigio come si sarebbe rivelata alcuni anni dopo tenendo concerti di violino in Europa e in America. Presentandola a Giosuè come al gran sacerdote, Annie vedeva sul volto del poeta che l’aveva fatta tremare così spesso con scene di gelosia e burbere strapazzate, un’ombra di tenerezza ch’egli faticava a dissimulare: “Vattene, le diceva allora, vattene o insensata a badare alla tua bambina. Voglio parlare dell’Inghilterra in latino con tuo marito!”

Annie se lo vedeva arrivare all’improvviso mentre si trovava in villeggiatura. Aveva insegnato a Vivien a chiamarlo anche lei l’Orco e il buon avvocato Chartres discuteva con lui di politica e di letteratura davanti a una bottiglia di Barolo. Quanto a Carducci, che sempre si era piegato a stabilire rapporti di buona amicizia con i mariti delle sue amanti, spesso interrompeva la dotta conversazione per rivolgersi ad Annie e trafiggerla ancora con il suo sguardo di leone domestico: “Che educazione potrai mai dare a questa creatura? Avete un’aria molto imbambolata tutte e due. Se ti cresce capricciosa e ribelle, come ero io che gettavo sassi e rubavo mele, farai bene a farle imparare per castigo ogni sera cento versi di Ovidio… Ma già tutto é inutile: né tu né lei saprete mai nulla di Ovidio”.

Infatti anche alla stessa Annie, Carducci aveva imposto la lettura dei versi di Ovidio.

Senza ricorrere a Ovidio, Annie Vivanti dimostrò che si potevano scrivere libri di successo, non poesie beninteso, basta con le poesie per le quali da nessun altro letterato vivente avrebbe ottenuto la prefazione, ma romanzi, racconti e anche drammi teatrali.

Come “Rosa azzurra” che andò in scena a Bologna. Quella volta non avendo potuto suggestionare il pubblico con una presentazione, Carducci conduceva la claque seduto in una poltrona di platea, applaudiva con quante forze aveva, sperando d’’imporre il suo gesto agli spettatori…

… che invece esprimevano la loro disapprovazione con tutti i mezzi possibili, fra cui i fischi erano i più corretti.

Il grande poeta inveì contro di loro, mostrò minaccioso i pugni, saltò in piedi sulla poltrona per intimidirli sprizzando faville dagli occhi infuriati…

… senza impedire tuttavia a “Rosa azzurra” di precipitare in un fiasco completo.

Soltanto lui non si arrendeva e già l’indomani appariva…

… sul Mattino di Napoli un articolo scritto sotto l’impulso dell’ira, nel quale sosteneva che la commedia della Vivanti valeva per almeno i tre quarti del teatro italiano.

Non c’è che dire! Annie lo aveva proprio stregato!

Un giorno Annie Vivanti e Giosuè Carducci si recarono a trovare il maestro Giuseppe Verdi.

L’Orco, quella volta, si comportò veramente da orco. Entrò a Palazzo Doria, a Genova, dove alloggiava in quel periodo il grande compositore e come fosse lui il padrone di casa attraversò i saloni e si diresse dritto dritto verso il terrazzo da cui si poteva vedere il mare. E da lì non si mosse. Annie lo aveva seguito imbarazzata… Giosuè guardava un po’ Annie e un po’ il mare, un po’ sospirava e un po’ respirava a pieni polmoni l’aria del mare… Il maestro Verdi, capita la situazione, non si scompose più di tanto e forse in omaggio all’idillio tra il poeta e la sua musa si sedette al pianoforte e cominciò a suonare…

Cosa?

Forse il “Falstaff” che stava componendo.

Quando Verdi smise di suonare l’ateo Carducci gli si avvicinò e stringendogli la mano disse: “Io credo in Dio”.

La romanticissima Annie non sapeva che fare: urlare di gioia o piangere di commozione?

Annie Vivanti fece scorciare i capelli a Carducci e lo obbligò a vestire più elegantemente. Lui brontolava. Diceva: “Non sembro più un repubblicano”. E quando qualcuno lo prendeva in giro si difendeva additandola: “E’ colpa di quella lì”. Ma, cocciuta, gli impose pure i guanti di capretto, rigorosamente grigi.

La scrittrice era una superba cavallerizza, dunque quale regalo migliore di un cavallo? E il poeta glielo regalò. Quando si annoiava  prendeva il suo cavallo e via… Lui tentava di richiamarla indietro ma la walchiria era già balzata in sella…