Luci ed ombre del rapporto istituzioni/ centri anti-violenza: dal femminismo degli anni 70 alla Convenzione di Istanbul
Articolo di Elvira Reale, Associazione Salute Donna e Stefania Cantatore, Udi Napoli
— Con il femminismo si aprì un percorso tutto politico in cui “la differenza potesse venir detta e pensata senza essere inferiorizzata o naturalizzata” (Olivia Guaraldo, 2011)
Il femminismo è parlare di questa differenza partendo da sé , dalla propria storia, dalla propria esperienza; è acquisire potere prima di tutto su di sé come conoscenza di sé delle proprie oppressioni dei propri limiti e della propria forza. Questa fu l’autocoscienza del movimento femminista degli anni 70, fare luce a partire da se stesse delle radici dell’oppressione delle donne, e abbracciare la strada della liberazione; diversamente dall’emancipazionismo tutto realizzato in rapporto alla necessità di emulare il potere maschile, senza riflettere sui vincoli del patriarcato che ostacolavano anche gli obiettivi di emancipazione e parità uomo-donna.
La pratica dell’autocoscienza, portò ad alcuni risultati: valutare come le scienze, la filosofia, il linguaggio, rispondessero a criteri di dominanza maschile dove la soggettività femminile era nascosta, occultata e sottomessa. Il pensiero della differenza che si contrappose al dominio maschile divise l’uno in due e cominciò a far emergere il punto di vista delle donne, la loro storia sociale, e mise a nudo la parzialità di tutte le scienze.
Il prodotto del femminismo, del pensiero della differenza fu anche il separatismo, necessario per riflettere partendo da se stesse e portare a termine il percorso della differenziazione dell’ ‘uno in due’ in tutti i campi delle scienze, del sociale, della politica. Ancora frutto del femminismo fu la pratica del self-help: di fronte ad un mondo scientifico e assistenziale tarato sul pensiero e sulla pratica avallata dal maschile, le donne preferivano prendersi cura di sé a partire da se stesse. Questa pratica soprattutto ebbe risultati importanti nell’analisi della propria sessualità ed ebbe come testimonial il libro: ‘ Noi e il nostro corpo’.
Frutto ancora del femminismo che incrociò le donne professioniste inserite nei percorsi di assistenza fu la pratica separatista di ‘donne che curano donne’, mutuata certamente dal sefl help, con un mediatore che era la professione e la competenza specialistica ma al servizio della liberazione delle donne; donne-tecnico quindi al servizio delle altre donne, donne tecnico che avevano operato una critica delle scienze ed in particolare della scienza medica1. ‘Donne che curano donne’, all’interno dell’idea che esistono anche tra donne competenze e conoscenze che possono essere utilizzate nella pratica, che vanno valorizzate (senza fare riferimento al pensiero maschile che ingabbia e uccide l’autonomia) fu sostenuta dalla libreria delle donne di Milano con il fascicolo del sottosopra intitolato ‘Più donne che uomini’ (1983). La pratica ‘donne che curano donne’, evoluzione del concetto di self-help, sostenne la nascita dei primi consultori autogestiti e dei consultori istituzionali della prima ora. Una delle poche esperienze sul versante della salute mentale, separatista e rispondente al criterio di ‘donne che curano donne’, dell’inizio anni 80, oltre quella internazionale sorta in Canada, è quella napoletana del gruppo di psicologhe e donne medico organizzato nel servizio pubblico da Elvira Reale, in cui si creò nelle istituzioni (ma senza mai essere istituzionalizzato, legato quindi alla libera volontà di donne che vi lavoravano) il servizio di salute mentale ‘dalle donne alle donne’ che unì a questo principio, la critica radicale alla scienza psichiatrica ed alla nosografia classica, introducendo nella pratica medica e psicologica del servizio di salute mentale, la parola della donna, l’ascolto della sua storia e della sua vita quotidiana, dei suoi rapporti con l’uomo e con il potere; ascolto che fu alla base della trasformazione dei parametri psico- interpretativi del disagio femminile (il libro del 1982, ‘Malattia mentale e ruolo della donna’, frutto di una esperienza pratica, rivoluzionò l’idea tradizionale di un disagio mentale della donna a partire dalla biologia femminile).
La proposta di Sottosopra, che analizziamo in dettaglio, fu alla base di un mutamento di prospettiva del movimento chiamato così ad un separatismo attivo, che partendo dalla pratica separatista tra donne (necessaria a riflettere ed immettere nel sociale nuove teorie autonome), mettesse ‘scompiglio’ nelle istituzioni inserendo pratiche e parole d’ordine dissonanti con il potere maschile e con il modo maschile di guardare il mondo ed il rapporto con il femminile (prima, sempre asservito, subordinato, dipendente).
Dal libro di Laura Grasso2: “La proposta di sottosopra è dunque quella di lavorare insieme alle altre donne per inserire i contenuti, i bisogni, i desideri del femminile attraverso le crepe e le fratture che le contraddizioni quotidiane aprono nel corpo sociale. E’ una critica al separatismo statico ad una cultura della marginalità estremizzando la rivendicazione di una profonda alterità femminile nei confronti di una società costruita dall’uomo e per l’uomo che rischia di soffocare e cancellare il bisogno di esistere nel mondo non come soggetto emarginato ed auto emarginante ma come soggetto protagonista pur riconoscendo la propria estraneità alle regole del gioco su cui il sociale si fonda; esprime comunque la propria diversità non ponendosi fuori dalla scena ma stando lì dentro. Il documento di Sottosopra si propone quindi di indagare sul bisogno di emancipazione delle donne in un’ottica femminista e quindi differente da quella tradizionalmente assunta dalla sinistra prevalentemente orientata ad un discorso strutturale- economicista in cui né il soggettivo né tantomeno l’analisi sessuata dei rapporti sociali poteva avere spazio. Il documento punta alla valorizzazione ed alla costruzione di un mondo di donne, di rapporti tra donne vissuti e giocati non più e non solo nella dimensione rassicurante dei gruppi di sole donne ma più in generale nel mondo; rapporti tra donne si ma che si confrontino e si valorizzino nella prestazione sociale proponendo valori e codici femminili anche là dove la cultura maschile continua a comunicare e trasmettere i propri modelli di riferimento il mondo separato delle donne.
Chiara Saraceno sottolinea come il femminismo partendo da una doppia opposizione quella all’identità femminile tradizionale e quella al maschile ha permesso la costituzione di un’identità collettiva femminile rispetto alla quale le donne si potessero identificare e riconoscere; successivamente tale identificazione rafforzando l’immagine femminile dalle donne e per le donne ha consentito l’affermarsi delle differenze.
In tal senso riteniamo certamente vera è positiva l’esistenza di una situazione nuova che abbiamo chiamato di femminismo diffuso la quale comprende realtà molto eterogenee tra loro che vanno dalla presenza in settori istituzionali della politica, del mondo del lavoro, di nuclei di donne che affermano in termini rivendicazionisti la specificità femminile fino ad arrivare a includere in tale definizione la molteplicità delle biografie disegnate nel presente. Bisogna essere però consapevoli che nel passaggio dal Movimento femminista al femminismo diffuso si rischia l’annullamento del significato antagonista di queste realtà che verrebbero a perdere il loro potenziale conflittuale diluite in un sociale sempre più differenziato o costrette alle regole rigide del gioco della politica tradizionale.
In Italia Negli anni 90 nell’ottica di un femminismo diffuso, e sull’onda del movimento anti-violenza che fu un portato della rivoluzione femminista degli anni 70, si diede vita ai servizi ‘dalle donne alle donne’ questa volta in tema di accoglienza delle donne vittime di violenza.
L’accoglienza era inizialmente quella delle donne in fuga che avevano bisogno di protezione e di un rifugio sicuro, là dove non era riconosciuta la violenza domestica e là dove non vi erano misure di tutela pubbliche e giudiziarie per le donne.
Le case rifugio furono la prima risposta di un servizio ‘delle donne alle donne’ sul tema della violenza con caratteri di totale autonomia dalle istituzioni.
Ricordiamo a questo proposito quanto detto da Alessandra Bocchetti sui primi centri anti-violenza: “penso che sia una cosa buona, penso che sia
giusto, un nostro dovere, ma penso anche che questa non sia politica” . La Bocchetti distingueva la “politica per le donne”, costruita per rispondere ai bisogni di categorie di donne, maltrattate, disagiate, ecc. contrapposta alla “politica delle donne”. La Bocchetti ventilava una contraddizione tra il fare politica e costruire servizi, contraddizione non risolta anzi presente anche oggi3.
Sul piano internazionale poi contemporaneamente alla crescita delle case rifugio e dei centri, si delineano importanti passi che individuano la violenza come un ostacolo all’uguaglianza. Nel 1993 abbiamo due pronunce politiche importanti: la dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne delle Nazioni Unite, ed il congresso di Vienna che indicherà che i diritti universali (1948) vanno coniugati per genere affermando la necessità di parlare di diritti umani delle donne. E poi nel 2003 abbiamo la Risoluzione 58/147 delle Nazioni Unite sulla eliminazione della violenza domestica elemento più vistoso della violenza contro le donne.
Ma la violenza non è solo questione di diritti universali negati alle donne, ma anche di diritti negati nell’ambito della salute, così si affaccia nel panorama della lotta contro la violenza anche l’OMS nel 2002 con il suo rapporto mondiale sulla violenza e la salute. Da questo momento i temi dei diritti negati andranno di pari passi con i temi della salute delle donne
In questi anni in Italia si incrociano le pratiche di donne che passano a investire più massicciamente il campo dell’anti-violenza come luogo cruciale dell’asservimento della donna al potere maschile, in assenza di ogni passo istituzionale sordo alle pronunce internazionali. Sorgono i centri anti-violenza, per primo il centro di Bologna, luogo storico. Poi gli altri.
Intanto le donne, dei centri anti-violenza e delle associazioni, dei partiti, le singole donne si mobilitano su temi politici generali quali la legge sulla violenza sessuale. La violenza contro le donne ha tante facce e si esprime in tutti i contesti della vita sociale pubblica e privata. La battaglia contro la violenza alle donne è stata fatta politicamente in tante iniziative di legge che hanno riguardato le pari opportunità uomo e donna, il lavoro, le quote rosa ecc. ecc. Ogni battaglia che le donne hanno fatto per la parità è stato un tassello della lotta contro la discriminazione e la violenza sulle donne. Abbiamo così potuto distinguere in questi anni le battaglie delle donne dalle battaglie dei centri per assicurare diritti alle vittime di violenza. I centri anti-violenza, non esauriscono quindi tutte le prospettive di lotta delle donne, ma ne rappresentano un settore importante.
I centri negli anni 2000, consapevoli che la lotta alla violenza non si fa da soli, anticipando la Convenzione di Istanbul, si aprono all’esterno, parlano di sinergie istituzionali e di rete con le FFOO, Pronto soccorso, servizi sociali, procure, e iniziano a partire da loro iniziative per costruire percorsi formativi che realizzano all’interno delle istituzioni della sanità e del diritto e sviluppano anche linee guida, utile base per la conoscenza e la rimodulazione di competenze. Le linee guida più incisive sono quelle sviluppate insieme all’ANCI e riguardano i servizi sociali dei comuni.
I centri prima della Convenzione di Istanbul indicavano la necessità che sulla violenza si facesse rete tra tutti, associazioni e istituzioni e che le istituzioni fossero formate ad accogliere le donne vittime di violenza.
Negli stessi anni 2000, oltre i centri anti-violenza, si aprono servizi per le donne centrati sulla risposta alla violenza anche nelle istituzioni. Altre donne ad esempio nella sanità fanno un percorso analogo prendono in mano il testimone della trasformazione delle prassi istituzionali, inserendo nelle istituzioni servizi ‘dalle donne per le donne’; tra questi: Il primo Soccorso rosa per la violenza sessuale della Mangiagalli a Milano (1996); il centro clinico per il maltrattamento in famiglia ed al lavoro a Napoli presente nella UOC di psicologia della ASL Napoli 1, nel 2002 (epigono del servizio si salute mentale delle donne del 1982) , ed i percorsi/sportelli rosa nei pronto soccorso (lanciati dal documento ministeriale di Livia Turco sulla salute delle donne del 2008) che si aprono con diversa prospettiva e background nel 2009 sia a Grosseto ( sportello anti violenza in Pronto Soccorso per tutte le vittime di violenza, le così dette fasce deboli) che a Napoli (sportello in pronto soccorso solo per le donne vittime di violenza), solo per citare i primi. In questi anni (2009) prima della Convenzione di Istanbul leggi importanti prendono corpo come quella sullo stalking del 2009 (atti persecutori, che qualificano per la prima volta una violenza contro le donne non solo fisica e sessuale ma anche esclusivamente psicologica e che richiedono tra le prove, un attestato sanitario di ‘perdurante stato di ansia’).
Contemporaneamente la violenza contro le donne entra in un altro percorso: la trasformazione della medicina e l’affacciarsi della medicina di genere che ingloba le radici della violenza come causa di molte patologie diffuse tra la popolazione femminile (In Italia la medicina di genere si affaccia con Laura Balbo ed un gruppo di donne tecnico legate al movimento: ‘la salute a misura di donna’ del 1999 con Elvira Reale e Patrizia Romito per citarne alcune).
In questo movimento fluido, internazionale e nazionale, in cui sulla violenza si affacciano esperienze anche istituzionali che condividono i principi dei servizi ‘per le donne’, si inserisce la convenzione di Istanbul che pone alle istituzioni obblighi precisi e trasformazioni anche sul terreno delle leggi e degli ordinamenti.
La Convenzione (del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013 ed esecutiva il 1 agosto 2014) interviene a strigliare le istituzioni ed a sollecitare una presa di responsabilità verso le donne vittime di violenza , insieme a direttive importanti come la direttiva del Parlamento europeo n. 29 del 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (assunta nel Dlg 212/2015).
In rapporto alla Convenzione di Istanbul in Italia, unitamente all’allarme femminicidio, si attuano una serie di leggi che vogliono ‘tutelare le donne vittime di violenza”, citiamo la legge 119 del 2013, e la legge 208 ( artt.790/91) del 2015 sui percorsi di tutela nei Pronto soccorso.
Ambedue le leggi sono oggetto di critiche radicali da parte de centri anti violenza che denunciano l’ottica di tutela delle donne equiparate a soggetti incapaci di autotutela ecc. Da questo momento i centri anti-violenza che fino ad allora erano stati intorno ad un tavolo per cooperare nella logica di rete, entrano in rotta di collisione con le istituzioni ed in particolare con l’istituzione sanitaria con una confusione di linguaggi e di mission tra i due.
L’ottica dell’assistenza e della tutela è propria dei servizi pubblici, e questa deve essere però coniugata con le esigenze delle vittime, secondo le direttive internazionali, ma non può essere superata e sostituita dalla mission culturale che è invece propria dei centri anti-violenza, della loro storia politica per la quale, a differenza delle istituzioni, si sentono liberi di sviluppare un progetto con la donna che prescinda dalle finalità di assistenza e di tutela e che si ricolleghi al solo filone dell’autocoscienza o del self-help. La confusione che oggi si è generata, tra ottica di servizio ed ottica politica e culturale dei centri, deve trovare uno sbocco che non può che essere la specificità politica dei centri: ovvero, il loro rappresentare gli interessi e i diritti delle donne presso le istituzioni e soprattutto contro un agire scorretto delle istituzioni ( la così detta vittimizzazione secondaria, stigmatizzata dalla stessa Convenzione di Istanbul).
La politica attuale dei centri anti-violenza
Estranei ai centri, o comunque estranei alla mission politica dei centri, sono gli obiettivi di tutela, di assistenza/cura ed anche la qualificazione di vittima della donna che a loro si rivolge: l’incontro con i centri non è rivolto al passato (la posizione della donna vittima di violenza domestica che deve essere sancita da un intervento giudiziario mirato a individuare un autore di un reato ed una vittima senza ombra di dubbio, ed a tutelare la vittima e risarcirla del danno) ma al futuro ovvero al percorso di uscita dalla violenza della singola donna che si vuole giustamente e necessariamente attrice e padrona del suo destino in un ruolo non più di vittima di un reato ma di sopravvissuta.
” L’approdo al Centro Antiviolenza rappresenta per le donne l’incontro con un luogo riconoscibile, vicino alla “buona” normalità della vita quotidiana, e quindi poco identificabile come spazio dedicato al disagio.
Anche le professionalità presenti sono usate in modo flessibile tenendo in considerazione l’esperienza di chi soffre e le capacità della donna di esprimere la propria soggettività.
La donna che vi si rivolge ai Centri è soggetto agente, attrice principale del suo percorso di uscita della violenza, un percorso che la porta a riprendere in mano la sua esistenza. L’equipe del Centro struttura con lei, e non per lei, un progetto di ridefinizione, riorganizzazione della propria vita; mai si sostituisce a lei.
L’aiuto fornito alla donna non è di tipo assistenziale. La sola assistenza,infatti,anche se fornisce risposte immediate, lascerebbe la donna in una situazione passiva. I Centri aiutano la donna a ritrovare il coraggio e la forza per costruirsi un progetto di vita futura concreto che tuteli la sua salute psicofisica e quella dei suoi figli. Un lavoro che parte dall’analisi della propria storia personale, dei sensi di colpa, del vissuto di violenza”4
Questo percorso di autoconsapevolezza della donna, è importante, ma non sufficiente rispetto ai tanti problemi che la violenza solleva, da quelli economici, abitativi, a quelli dell’affido dei minori, a quelli della sicurezza con la limitazione tempestiva della libertà per l’autore della violenza.
L’affermazione che “I Centri Antiviolenza costituiscono la risposta più coordinata e organizzata al fenomeno della violenza contro le donne in Italia5” si rivela non adeguata alla realtà del fenomeno della violenza. Infatti una risposta coordinata ed organizzata non è frutto quindi solo dell’attività dei centri ma, come ben individuato dalla Convenzione di Istanbul, è frutto di una sinergia di tutte le istituzioni in cui ciascuna faccia la propria parte .
Se l’attività dei centri non è esaustiva di tutta l’azione anti-violenza, essa però ha un fulcro essenziale insostituibile e non delegabile a terzi, ovvero la rappresentanza politica delle donne che subiscono violenza: ai centri spetta l’onere di far valere il punto di vista delle donne che devono rappresentare in tutti i luoghi dove si decide della loro vita, primi fra tutti i tribunali civili e penali, poi tutti i servizi istituzionali con cui una donna all’inizio del percorso, considerata socialmente e giuridicamente (e non psicologicamente) come vittima, si interfaccia.
Questa rappresentanza però deve poter divenire concreta ed effettiva, ed è pertanto necessario che i centri siano consultati in tutte le procedure che riguardano le donne che si sono a loro rivolte. La consultazione dei centri deve essere prevista, sancita e orientata lungo le direttrici degli effetti che la violenza ha determinato sulla vita della donna e su quella dei suoi figli. Essa si attua con la deposizione di memorie e relazioni nella fase istruttoria sia del civile che del penale; esse vanno acquisite come fonti di prova nel settore giudiziario sia del contesto della violenza sia dei suoi effetti su donne e minori. Il giudice istruttore ( o il PM nel penale) ha l’obbligo di tenerne conto e nel caso disponga una consulenza tecnica tale obbligo ricade sul CTU ( o il CT del PM).
La presenza del Centro anti-violenza e delle sue richieste o memorie in rappresentanza degli interessi della donna deve essere prevista anche in ogni altro luogo decisionale. Inoltre il Centro anti-violenza può esporre direttamente censure agli organismi competenti su modalità di vittimizzazione impropria delle donne ( servizi sociali, sanitari, uffici giudiziari; ecc.) .
Questo ruolo politico del centro ha dei suoi riferimenti anche nella figura che rappresenta la voce e gli interessi della donna nella rete istituzionale dei servizi inglesi di supporto alle vittime (MARAC) e che viene identificata nell’IDVA o IDSA (independent domestic or sexual violence advisor); oppure in quelle memorie ammesse nel rito penale americano che vanno sotto il nome di vicitim impact statements che rappresentano gli effetti del trauma dal punto di vista della vittima che l’ha subito. Questa prospettiva sul ruolo politico pro-attivo dei centri, come prosieguo dell’attività del femminismo degli anni 70, appare chiara; meno chiara e più densa di contraddizioni con il ruolo politico cercato e dichiarato, appare invece la loro partecipazione alla rete anti-violenza istituzionale non solo come rappresentanti politici ma anche come erogatori di servizi.
Non sta a noi delineare come risolvere il problema della doppia presenza (politica e di servizio), ma certamente la doppia presenza, la doppia anima dei centri non può diventare ostacolo all’evoluzione delle istituzioni sulla strada delle riforme che la Convenzione ha imposto; cosa che comunque danneggerebbe le donne.
La convenzione di Istanbul ed i percorsi dedicati (rosa) nelle istituzioni alle donne vittime di violenza
Oggi la Convenzione ha suonato la sveglia alle istituzioni, ora è diventato obbligo per le istituzioni attuare politiche anti-violenza sensibili al genere, attuare percorsi, all’interno delle loro specifiche competenze, dedicati alle vittime di violenza.
Le istituzioni possono essere richiamate ai loro compiti qualora non mettano in atto procedure sensibili alla violenza di genere, ma non possono essere ostacolate nel loro fornire nuovi strumenti di tutela alle vittime. Le istituzioni devono offrire assistenza e tutela per la salute, la vita e la sicurezza di donne e minori: questi i loro obblighi, se derogano devono essere deferiti ad un’autorità di controllo, ma sicuramente non possono essere attaccati perché perseguono i loro compiti istituzionali se questi non ledono gli interessi ed i diritti delle donne di essere ascoltate, credute e risarcite dei danni.
La convenzione di Istanbul ha aperto la strada ai percorsi competenti e dedicati alle vittime, in cui vi siano operatori formati alla violenza ed al suo riconoscimento, e che adeguino le loro prassi ai bisogni delle vittime.
Noi siamo fautrici dei percorsi rosa dedicati che riguardano la violenza in ogni istituzione, e non solo nelle istituzioni sanitarie, che abbiano come finalità quella di mettere al centro i diritti e l’assistenza delle donne vittime di violenza.
Ricordiamo come antesignani dei percorsi rosa le bacheche rosa sulla violenza proposte dell’UDI ed esposte nelle istituzioni.
Il percorso rosa in ambito istituzionale è un percorso di emersione della violenza, dell’accoglienza delle richieste di aiuto che le donne rivolgono direttamente alle istituzioni (dalla salute, alla sicurezza) e delle risposte socio-assistenziali secondo le competenze specifiche rimodulate sulla base della conoscenza dei temi della violenza e dei doveri di legge (compresa la legge 77/13, CdI) .
Il percorso rosa in ospedale è necessario per individuare la violenza; sviluppare competenze specifiche e strumenti di lettura del disagio delle vittime; rispondere alle esigenze delle vittime con interventi appropriati diagnostico-terapeutici, in rete con altre istituzioni e associazioni ( FFOO, Centri anti antiviolenza, ecc.).
L’emersione della violenza significa che la violenza esce dalla dimensione privata e diviene fatto di evidenza pubblica. Nella sua pubblicizzazione entra anche il suo essere un reato ( a meno che le donne non vogliano depenalizzare la violenza come successo in Russia!) che va segnalato, da chiunque rivesta un ruolo di pubblico ufficiale, all’A.G. Se la violenza rimane al chiuso del rapporto tra un operatore e la donna (ma sicuramente ciò non può accadere per gli esercenti una professione sanitaria) va da sé che il fenomeno resta sommerso, nonostante sia stato comunicato, perché non produce effetti di interruzione della violenza.
L’emersione è comunque ciò che le donne vogliono quando si rivolgono al Pronto Soccorso quando rivelano che stanno male perché hanno subito una qualche violenza e quando indicano l’autore della violenza. Sappiamo molto bene che quando le donne non vogliono far emergere la violenza mentono sulle cause ( allora sono caduta dalle scale….), ma sappiamo che gradirebbero da operatori esperti anche delle domande specifiche ( ‘allora chiedimelo perché sono caduta’…) per svelare la violenza e renderla visibile con tutto quello che ne consegue.
Sappiamo anche da dati internazionali e nazionali che le donne si recano più frequentemente negli ospedali, più che altrove, quando sono spaventate o quando stanno male perché l’ospedale è aperto H24, 365 giorni all’anno e dà sempre una risposta. Sappiamo anche che fino a circa 10 anni fa le critiche colpivano un sistema sanitario inesperto della violenza che non riportava nei referti le cause e le parole delle donna. Conosciamo bene anche le critiche giuste mosse anni fa e per certi versi anche oggi alle FFOO che invece di accogliere la denuncia della donna rinviavano la donna a casa, consigliandole un periodo di riflessione per ricucire il conflitto familiare. Anche questo settore, grazie alla CdI è in movimento per accogliere e dettagliare le denunce delle donne approntando stanze dedicate alle vittime ed operatori/trici esperti.
Le istituzioni vanno formate al discorso della violenza ma una volta formate non possiamo chiedere loro di ‘ non vedere’, di non refertare, di non segnalare, di occultare il dato dell’emersione…presupponendo che la donna in condizioni traumatiche, non sia capace di autodeterminarsi… o .perché forse domani quella donna potrà ripensarci….
Se la donna domani ci ripensa, ( e ovviamente è sempre possibile ed i casi ci sono) avremo comunque fatto un buon lavoro a suo vantaggio quando, nell’alternanza di entrate ed uscite dalla relazione (previste dal così detto ‘ciclo della violenza’ e considerate anche da sentenze di cassazione come non estinzione del reato o come non prova di non credibilità della vittima, Cass. pen., Sez. 6, Sentenza n. 26571/2008; Cassazione penale sez. VI, 11/04/2014, n.19514) di nuovo quella donna sarà costretta a ritornare in ospedale, o a denunciare, ed allora ci saranno anche più prove sul suo cammino di uscita della violenza. Quello che non si deve dimenticare è che la donna deve sostenere giuridicamente la sua attendibilità e credibilità, essendo non solo persona offesa di un reato, ma molto frequentemente essendo anche unica testimone del reato che la riguarda.
Il percorso rosa nelle istituzioni (emersione, accoglienza, competenza, raccordi e rete) serve a fare emergere la violenza dall’ambito della famiglia, a fornire prove terze, e serve anche ad individuare nell’ambito delle violenze più gravi i rischi di femminicidio sia che la donna si presenti al Pronto Soccorso sia che si presenti dalle FFOO.
I PS sono i punti di riferimento dell’emergenza, su di essi ricade anche l’onere di pubblicizzare e segnalare questi rischi, perché un domani un femminicidio potrà essere addebitato agli operatori sanitari come responsabilità professionale, al pari di una mancata diagnosi di una grave patologia. Così come oggi i femminicidi cominciano ad essere imputati a quelle FFOO o a quelle procure che non hanno tempestivamente accolto denunce e segnalazioni.
Di tutto ciò le donne devono essere informate: il percorso a loro dedicato nelle istituzioni ( e per ora solo previsto nelle istituzioni sanitarie e nei pronto soccorso) è un percorso complessivo di emersione della violenza e di raccordo tra le istituzioni e le associazioni anti-violenza del territorio.
1 Epigono del femminismo anni 70-80 è ad esempio la nascita della medicina di genere negli anni 90 che ha diviso la conoscenza tecnica del corpo maschile da quello femminile.
2 A. Calabrò, L. Grasso, (2004) Dal movimento femminista al femminismo diffuso, Franco Angeli.
3 Tale contraddizione si è acuita fino ad oggi quando man mano i centri anti-violenza che rivendicavano un ruolo culturale autonomo e indipendente, si andavano professionalizzando con figure specifiche (avvocati, psicologi, ecc.) e cercavano poi l’accreditamento ed il finanziamento come servizi presso gli enti locali.
4 I Centri Antiviolenza: dalla violenza maschile sulle donne alla costruzione di libertà femminili (DIRE)