Madri surrogate: a partire da me, con la mente e col cuore *
Come si fa a non essere emozionate e ragionare soltanto con la testa di un problema come questo di cui in verità hanno già parlato in tante e tanti… Parafrasando l’espressione “gestazione per altri” mi è venuto da pensare: oggi mi trovo in un seminario “per altre”, cioè in uno spazio di discussione che non dovrebbe riguardarmi, non essendo io alla mia età né produttiva né riproduttiva. Ma sono una femminista che fa politica attiva con l’obiettivo di cambiare radicalmente l’esistente e il suo senso; so che la realtà, tutta la realtà prima o poi mi attraversa, diventa campo di osservazione inevitabile, materia su cui sono obbligata a riflettere. Credo che il problema delle madri surrogate-utero in affitto-gestazione per altri, groviglio così difficile da districare, abbia bisogno di un approccio complesso e mi fa piacere che oggi l’UDI abbia avviato un discorso multidisciplinare che, dato questo molto importante, avviene in presenza, cioè guardandoci reciprocamente negli occhi all’interno di una comunicazione in cui è presente il corpo e la forza del suo linguaggio. Sono infatti tanti i piani e i soggetti che intersecano le nuove tecniche di procreazione e, nello stesso tempo, sono complessi e contradditori i sentimenti che esse attivano.
Sono una che ragiona in genere a partire da sé: faccio sempre riferimento a me, dentro di me, per tutto quello che succede e di cui si discute. Come femministe con questa stessa modalità abbiamo negli anni passati elaborato riflessioni sulla maternità e sul materno molto ricche e differenziate, in un quadro di riferimento, il venire al mondo e il mettere al mondo, risignificato alla luce di una nuova coscienza di noi stesse, ma tuttavia rimasto a lungo abbastanza immutato: un nuovo essere nasceva a casa o in ospedale da un corpo di donna, da un suo ovulo fecondato durante un rapporto sessuale. Ad un certo punto siamo state travolte da questa formidabile accelerazione impressa dalla ricerca scientifica e da una ricca strumentazione tecnologica che hanno aperto imprevisti orizzonti, rendendo non facile la decodificazione delle esperienze in termini di soggettività e di libertà. Ho cominciato anni fa ad interrogarmi con la mente e col cuore su questi nuovi scenari poiché una giovane donna a me molto cara ebbe un tumore che le impedì di avere un secondo figli* da lei tanto desiderat*. Ricordo che allora mi sono detta: ma se io fossi fertile e lei mi chiedesse “Rosanna, potresti accogliere nel tuo utero un mio ovulo fecondato?” certamente avrei potuto rispondere “Puoi anche adottare un bambino o una bambina”, perché è la prima risposta che viene da dare, visto che ti guardi intorno e sai che esistono tant* minori in attesa di adozione. Ma se lei avesse insistito “Io vorrei un figlio mio” e me ne avesse spiegato le ragioni profonde, molto probabilmente avrei detto di sì.
E poi mi sono chiesta: direi di sì…e quindi avrei per nove lunghi mesi una nuova vita dentro di me. Sono affiorati subito alla memoria i giorni delle mie gravidanze e i miei due parti. Mi sono ricordata di tutto quello che è successo: lo stravolgimento che c’è stato a livello di percezione del mio essere soggetto in trasformazione continua, con il corpo che non mi corrispondeva più, andava per i fatti suoi e si confondeva e fondeva con emozioni nuove e la loro enorme indicibilità. Ricordo il dialogo intimo e oscuro che ogni volta ho intrattenuto col nuovo essere, le paure, il sussulto ai primi suoi movimenti, il sostare a lungo in ascolto dell’ignoto che mi abitava e mi turbava. Infine, poi, i momenti del parto vissuto con le sue ambivalenze tra separazione dolorosa, liberazione, dolore, esaltazione, indefinibile soglia tra vita e morte. Un vissuto intenso, che ha senza dubbio rappresentato l’avvio di un apprendimento per una concezione democratica delle relazioni, come giustamente sostiene la storica Emma Baeri nel suo bellissimo libro “Dividua”. Sì, l’ho capito dopo, si è trattato di un difficile esercizio di democrazia: due corpi, due entità che stavano contemporaneamente nel mio cervello, nel mio respiro, nel mio sangue, nel cibo che ingerivo; la consapevolezza che quell’essere in me con-fuso sarebbe stato per sempre altro da me, insostenibile alterità a cui dovevo fare spazio, dare ascolto, cura e libertà, al di là di tentazioni di possesso e di dominio. Allora mi sono detta: sì, io posso anche dire di sì, lo faccio, però nella convinzione che dopo 9 mesi quell’essere sarà parte della mia storia come io sarò in qualche modo parte della sua, anche a livello genetico, come sembrano dimostrare recenti ricerche. E quando, una volta partorito, avessi dovuto “consegnarlo”, cosa avrei detto alla amica? “Io ti do il mio? tuo? vostro?” Di sicuro mi sarei trovata in una situazione senza senso perché non ha senso parlare di proprietà quando si tratta di un essere umano. E allora il problema che sorgerebbe, semmai, sarebbe un altro: non di chi è ma piuttosto chi di questo nuovo essere si prenderà cura, che vuol dire affetto, accudimento, sostegno psicologico ed economico. E si imporrebbe un’altra cruciale domanda: chi deve essere considerata la madre? Le mie risposte, in questo specifico caso, sono senza tentennamenti. Sul piano simbolico, biologico e affettivo entrambe sono madri. Sul piano giuridico, invece, è madre solo chi se ne assumerà la piena responsabilità in tutte le fasi della vita fino alla maggiore età. Sto parlando, come vedete, di una particolare tipologia di gestazione per altr* che a mio avviso non dovrebbe essere vietata poiché esito di un patto tra donne libere e consenzienti, dentro una rete di relazioni capace di costruire, si spera, una affettuosa, attenta, generosa genitorialità allargata. Occorre ricordare che nella storia umana sono sempre esistite, anche se non codificate, relazioni di genitorialità e di filiazione complesse, svincolate in vario modo da maternità e paternità biologiche; mi riferisco anche a vere e proprie strutture parentali di alcune comunità ampiamente osservate da varie antropologhe e antropologi. Quello che invece è per me impossibile da accettare è un ragionamento e una pratica che tendono a ridurre la vita umana al solo dato biologico, aprendo così una netta legittimazione per la spersonalizzazione, la mercificazione e lo sfruttamento: al contrario una vita, qualsiasi vita, è la sua storia, le sue emozioni, i suoi bisogni materiali ed affettivi, le sue relazioni. Resta però il problema di dover comunque fare i conti con gli scenari che le biotecnologie aprono e le nuove sfide che pongono sul piano etico, giuridico, sociale, perfino nella stessa definizione di cosa è mercificazione e cosa è sfruttamento in un tempo – non ce lo dimentichiamo- in cui sembra che il possibile possa sempre coincidere con il lecito e il desiderio con il rifiuto del limite. Una regolamentazione è necessaria, ma quale? e come arrivarci? Dobbiamo secondo me utilizzare gli strumenti che le elaborazioni e le pratiche femministe ci consegnano, con l’attenzione alle tante differenze che ci attraversano e ragionare da soggetti situati nell’oggi; occorre allargare lo sguardo all’intero e complesso scenario della riproduzione umana, facendo spazio a tutti i soggetti coinvolti e, se è il caso, sospendere temporaneamente il giudizio, mantenendo però sempre al centro la qualità e il valore delle relazioni. Bisogna infatti capire prima di giudicare e per farlo occorre ascoltare. Per quelle della mia generazione è fondamentale l’ascolto delle giovani donne che oggi si trovano in età fertile a vivere questo complicato e contradditorio presente, cercare di capire il senso che danno alla propria esperienza e come, di fronte a tante inedite opportunità, intendono declinare l’autodeterminazione e la libertà femminile.
Si è parlato prima del movimento Non Una Di Meno in termini che non condivido. Sono da quasi 4 anni nella rete “Io decido” nata per volontà e passione politica di ragazze che frequentano i centri sociali e che hanno costituito gruppi femministi all’interno di questi luoghi. Non le conoscevo, sono intervenuta alla loro prima assemblea quando tutte queste piccole realtà hanno deciso di fare rete. Sono rimasta con loro convinta come sono che la frammentazione è un dato di debolezza per tutte noi e che ineludibile è il confronto intergenerazionale. A giugno dell’anno scorso Io decido ha scelto di darsi un obiettivo più ambizioso e, insieme all’UDI e a DIRE, ha dato vita al movimento Non Una Di Meno, presente ormai in tutta Italia. Io continuo a partecipare attivamente alle numerose riunioni che spesso durano fino a tardi durante le quali mi capita di portare, col mio contributo, la testimonianza e i saperi di una storia per loro in parte sconosciuta, visto che il percorso scolastico e le varie agenzie educativo/formative sono ancora pesantemente segnate dalla misoginia di una cultura maschile e maschilista. Nonostante i miei 43 anni di lavoro politico nell’UDI, l’incontro fecondo col femminismo e l’esperienza esaltante dei dieci anni di occupazione dell’ex Buon Pastore oggi Casa Internazionale delle Donne, stando con loro mi si è allargato ancora una volta l’orizzonte. Non è facile alla mia età stare al passo con una vitalità che non conosce soste e inoltre tende a vivere la politica in termini contrappositivi a prescindere dalla complessità del reale, ma, vi assicuro, lo scambio con loro è per me molto emozionante e stimolante. Mi trovo di fronte a giovani donne che stanno facendo i conti con la precarietà, lavorativa ed esistenziale, con le resistenze di un patriarcato ancora furioso e di un neoliberismo selvaggio, con le cose terribili di cui stavate parlando a proposito di biotecnologie e biopolitica, con il nuovo mercato del lavoro e le sue insensatezze e disumanità. Nelle loro analisi, attraverso una pratica politica orizzontale, prezioso laboratorio di democrazia, cercano di destrutturare e combattere i dispositivi di costruzione sociale dei due generi, gli stereotipi sessisti e la violenza che essi determinano e, nello stesso tempo, lottano contro qualsiasi forma di sfruttamento, ingiustizia, esclusione. Attraverso un separatismo aperto alle tante differenze si stanno liberando dell’impianto binario e gerarchico del pensiero patriarcale e stanno faticosamente e generosamente tentando di tenere tutto insieme: genere, classe, orientamento sessuale, differenze culturali e religiose. Tutto in una ottica intersezionale e internazionale, in connessione con la realtà LGTB e col femminismo postcoloniale e postcomunista. In questo senso rappresentano un nuovo movimento femminista, un femminismo che io definisco “delle differenze”. Certamente esistono fragilità teoriche e alcune confusioni e rischi, ma sono rimaste quasi le sole, utilizzando al meglio le nuove tecnologie comunicative, ad occupare di continuo lo spazio pubblico –piazze, sedi di giornali, ospedali, tribunali….- in modo creativo ed efficace, coinvolgendo una pluralità di soggetti. Non hanno ancora affrontato il problema della maternità surrogata, ma quando lo faranno sono sicura che rifletteranno ciascuna a partire da sé, mettendo in pratica quello che dicono di aver imparato dal femminismo. Saranno di certo interlocutrici importanti per un confronto tra donne e tra i generi capace di produrre un nuovo simbolico condiviso, in grado di illuminare e orientare questo nostro difficile presente.
*Intervento al seminario nazionale dell’ Unione Donne in Italia del 18 Marzo 2017 “A proposito di surrogata”. Testo rielaborato sulla base della registrazione audio dell’Udi.