MANTOVA – dal 23 ottobre una mostra dei lavori di ANNALISA RAMONDINO – Fili rifili relitti riusi
A Mantova, nella Chiesa della Madonna della Vittoria il 23 ottobre 2016. si inaugurerà la mostra dell’artista romana Annalisa Ramondino, Fili rifili relitti riusi, organizzata dal Gruppo7 – Donne per la pace e dalle Donne degli Horti, col sostegno del Comune di Mantova nell’ambito di “Mantova capitale italiana della cultura 2016”. La mostra si chiuderà sabato 19 novembre.
Per preparare la mostra siamo andate a trovarla. Così abbiamo visto dove abita e dove lavora.
A Santo Stefano d’Itri, sui monti Aurunci, in uno spazio ampio di verde e di ulivi, nella casa di Ilvo Carlotti, imperdibile artifex, vive e lavora Annalisa Ramondino; così come, dimidiandosi, a Roma, in Vicolo del Leopardo a Trastevere, nella bella casa bianca e luminosa, piena degli oggetti che crea o che raccoglie nei suoi viaggi lontani, con occhio allenato allo sguardo e un piacere del particolare che da subito accende la sua fantasia.
A Itri, attiguo alla casa, c’è uno stanzone-falegnameria, dominio di Ilvo, che consolida, assembla, pialla, lima, incolla: esecutore fedele -come l’amico lattoniere- dei modelli in cartone di Annalisa, che ancor prima li ha ideati e disegnati.
Lì si accumulano i ‘reperti’: e vedi una sorta di ordinata discarica, vecchie cassette da frutta colme di pezzi piccoli e grandi di legno stinto, deteriorato, di ferri arrugginiti, di vecchie molle da poltrona, di resti di lamiere zincate, di bulloni, di tondini di ferro, di reti da muratura, di vetri una volta dipinti…
Poi, nello studiolo vicino, insieme ad una sorta di sbrigativo campionario degli oggetti realizzati, collocato distrattamente su mensole improvvisate, ecco mucchietti di ritagli di stoffe, sforbiciate di tessuti in altri tempi e in altri luoghi preziosi, toppe di seta o di velluto, trame sottili. Oriente e Porta Portese.
E ancora, di fuori, assi più lunghe accatastate al muro, con le tracce dei vecchi colori pastello, cromie ora sbiadite, quasi perdute, di quando -prima dello sfascio- erano barche o cabine da spiaggia.
Perché il mare è vicino e Annalisa impiega, per il suo bricolage dadaista, materiali di recupero: pescando nel caos di ciò che resta dopo il consumo e lo scarto, e che è lavorato dall’uso e dal tempo prima ancora che l’apprendista stregone lo animi di vite insospettate: con tenerezza ed ironia, secondo una visione artigianale e femminile della creazione artistica: che fà dell’objet trouvé, del ready made, occasione di straniamento e di invenzione dall’inequivocabile sapore dada, oltre che di ispirazione astratta e poverista, o talvolta di divertito gusto pop.
I materiali, centrali come i colori nella sua produzione artistica, sono assemblati e ibridati in impensate, giocose realizzazioni -multiculturali per tempi e provenienze diversi- che all’artista sono consentite dalle suggestioni dei suoi viaggi nel mondo oltre che dalla creatività fiabesca della sua fantasia: che ironica si intenerisce sullo scarto, sul “residuale”, per negarne la condizione di insignificanza. Così che, nel recupero di nuova funzione dei materiali abbandonati, hai la sensazione che un destino di deriva diventi il sentimento del divenire
Elementi di un’esausta fisicità materica, dunque, che riprendono vita nel momento generativo, per diventare -nell’incrocio della nostalgia e della memoria e con la leggerezza dell’ironia, appunto-, piccole “edicole”, “teatrini” che in qualche modo rimandano a Cornell, case “da passeggio”, con le ruote (come le vecchie cabine di certe spiagge inglesi o belghe degli anni ’20), “borghi residuali”, fabbriche dismesse dalla struggenza proletaria e dall’essenzialità sironiana, casette dal tetto a doppio spiovente -come se ne vedono ancora nelle nostre campagne, isolate e spaesate (“mute, senza colloquio”, direbbe Manganelli)-, a disegnare non uno spazio dell’abitare, ma uno spazio della memoria e del cuore.
E si aggiungono “palazzi del vento”, gabbie di tondini di ferro, “costruzioni d’aria” in miniagglomerati (perché tutto è lillipuziano), volteggi di acrobati e “torri immaginarie”, filiformi nello spazio rarefatto, con ghiribizzi di piccoli aerei a volteggiare sopra. Avverti la lezione di Melotti.
I vecchi pennelli diventano code d’aereo, i cilindri di latta chiusi dagli imbuti decorati si trasformano –e il pensiero corre ai poemi cavallereschi- nelle “tende di comando” dei campi di franchi e saraceni: con una propensione per il campo dei mori, a mio avviso, e non solo memoria visiva -come pure Annalisa dichiara- dal Piero della Francesca del Sogno di Costantino.
Poi, sospesi nell’aria, ondulano piccoli abiti vuoti, sagome esili dalla struttura infantilmente geometrica, intreccio di fili sottili di metalli dai colori diversi, aerei e brillanti. Che si oppongono a quelli ricavati dalle gomme di vecchi copertoni usurati, plumbei nella loro staticità, che, “spogliati dal corpo”, sembrano rimandare -pur tridimensionali- alle forme primarie del design di moda di rimando costruttivista, alle esperienze dell’abito “giù dal corpo” dei progetti di Nanni Strada, la fashion designer.
C’è, nell’operare di Annalisa, nella sua poetica del fare, una freschezza adolescenziale che è quella stessa del suo porsi di fronte alle situazioni e alle persone; c’è una fertilità inventiva parallela a quella dei giochi di loro piccole e del fratellino Carlito, che la sorella Fabrizia Ramondino ha ricordato in Guerra d’infanzia e di Spagna.
Sembra cioè che anche Annalisa resista -nella finzione creativa- al “paese da cui non si torna”, il paese “dove si diventa grandi”: lei che ‘da grande’, laureata, ha insegnato Matematica e osservazioni scientifiche nelle scuole medie e che -forte del suo apprendistato a Londra, a Shangai e a Nanchino- si è dedicata agli studi di medicina cinese e di agopuntura. Che ‘gioca’, certo, ma con l’ìntenzionalità e la consapevolezza dell’artista, che fa i conti con la storia dell’arte e della vita che si porta alle spalle.