Matilde Serao (1856-1927) si proponeva, nei confronti delle sue giovani e anche meno giovani lettrici, un intento educativo secondo i canoni della sua epoca.

Insomma, ad essere donna si impara!

Un po’ di titoli:

 “Castigo”.

 “Addio amore”.

 “L’ebbrezza, il selvaggio e la morte”.

 “Cuore infermo”.

 “Piccola anima”.

 “Piccola anima” è quella di Checchina, giovane sposa virtuosa, che soggiace alla fascinazione di un aristocratico seduttore.

“Checchina stava in camera, seduta accanto al largo, alto letto maritale, con le mani in grembo, tutt’assorta nei suoi pensieri, non accorgendosi di essere ancora in pianelle e col fazzoletto di tela al collo. Un marchese che va dalle principesse e le abbraccia e dà loro del tu, a pranzo da loro! Ma perché dunque suo marito lo aveva invitato? Come gli era venuto in mente di fare questo? A Frascati il marchese di Aragona villeggiava dai principi di Altavilla: egli scarrozzava ogni giorno con la principessa, l’accompagnava alla messa, uscivano a cavallo ella tutta chiusa nel suo abito da amazzone, col velo nero attorcigliato al cappello da uomo e una rosa thea all’occhiello, lui in costume di velluto verde oliva, cravatta di raso nero, speroni di acciaio e frustino nero. Essa, Checchina, li aveva visti passare, due o tre volte, come un’apparizione. Era un bel giovane, il marchese d’Aragona, alto, con una testa ricciuta e gli occhi melanconicamente espressivi. Un giorno, scendendo da cavallo, si era un po’ storto un piede e il marito di Checchina, che era medico, era stato chiamato ad  Altavilla per curarlo. Da allora, ogni volta che il marchese d’Aragona incontrava Checchina Primicerio, le faceva una scappellata profonda, quel gran saluto aristocratico che lusinga le donne borghesi. Tre volte l’aveva salutata così: una domenica, sulla piazza, dove suonava la banda municipale fra la chiesa e il caffè, mentre le belle frascatane passeggiavano, la testa e le spalle nascoste nello scialle di lana bianca; un mercoledì, nel pomeriggio, ella cuciva dietro i vetri del suo balcone, rimettendo i polsini a una camicia vecchia di suo marito e il marchese d’Aragona, passando nella via, salutò; un lunedì, di mattina, ella era con Susanna, la cameriera, in un vicolo recondito di Frascati, a contrattare la compra di certe ceste di pomidoro da un contadino, per farne conserva, per l’inverno, e il marchese d’Aragona, passando, salutò: questa volta ella aveva arrossito, lo ricordava bene, ma non sapeva perché, forse perché Susanna litigava forte col contadino, sul prezzo.

Suo marito continuava a dire e a insistere che quello era un pranzetto alla buona, in una casa modesta, che non aveva a che fare coi banchetti principeschi: il marchese sorrideva, con una grande finezza, e non rispondeva.

Quando Susanna, con una voce brusca, annunziò che li gnocchi erano in tavola, egli s’inchinò ed offrì il braccio a Checchina. Ella sentì il sottile profumo che egli portava, forse nei capelli, forse nel fazzoletto: un profumo molle e dolce: le pareva di averlo sulle labbra, come un sapore di zuccherino. In verità, sul principio del pranzo, ella fu molto in pena, perché tutto andava male. Susanna dava al marchese certe occhiate di diffidenza e serviva di mala grazia. I piatti e le forchette tardavano un secolo, dalla cucina: e Checchina taceva, senza osar di chiamare, fissando la tovaglia, tutta imbarazzata. Toto Primicerio aveva una grossa allegria di medico in festa, arrischiava lo scherzetto, parlava familiarmente al marchese, come se fossero compagnoni: gli parlava di una quantità di gambe segate, di budella cucite e riadattate nel ventre, di carotidi recise e di flemmoni che gonfiavano un braccio come un pallone. Il lume filava, e quando si abbassava, la luce era troppo fioca. A un certo punto disse: “Caro marchese mio, questi gnocchi e la torta che assaggerete in fine pranzo, sono opera di questa Checca mia, che ha le mani benedette”.

Il marchese le fece un complimento squisito.  In verità, egli fu finissimo. Parve non si accorgesse neppure di tanti piccoli incidenti volgari, prese due volte della frittura. Parlava a mezza voce, con una erre molto lieve, quasi aspirata, e una esse infantile. Fissava negli occhi il suo interlocutore, col suo sguardo serio, pensoso, mentre un lieve sorriso compariva sotto l’arco biondo dei mustacchi e la mano morbida scherzava col coltello. Ogni tanto, sotto lo sguardo del marchese, le palpebre le battevano come se la luce fosse troppo viva nella stanza; ma anch’ella sorrideva, silenziosamente annuendo col capo a quello che egli diceva.

A proposito della torta che era forse un po’ troppo cotta, abbrustolita nell’orliccio, egli disse qualche cosa di molto delicato, sulla dolcezza della donna. Checchina non intese bene il senso delle parole, ma la voce di lui la carezzò come una musica.

Checchina, dopo vari tentennamenti, decide di accettare l’appuntamento con il marchese e si reca verso il palazzo patrizio. All’improvviso piove e il vestito si bagna, si rovina. Checchina è costretta a riflettere; basta poco e la saggia Checchina ci ripensa e se ne torna a casa”.

L’onore è salvo… però però… tutto merito della pioggia. E se la pioggia non fosse caduta?

D’amore si può morire? Come Madame Bovary…

… o Narcisa di Giovanni Verga…

… o Giacinta di Luigi Capuana.

Anche senza amore si può morire. Ce lo spiega in “Cuore infermo” Matilde Serao anticipando, con molta fascinazione e precisione psicanalitica, il rovello interiore del secolo ventesimo: il male di vivere.

“Aveva cominciato a prediligere le penombre confidenziali. Nella camera sua faceva rimanere sempre abbassate le cortine bianche come un grande ed ermetico sipario, teso fra lei e la vita del mondo esterno. Quando passava nei saloni pieni di luce, le sbattevano le palpebre, si fermava inquieta, chiudendo gli occhi. Al giorno preferiva la notte. Si era occupata a fare una scelta di paralumi rosati, verdi, azzurrini che le creavano attorno ogni tanto, come ella voleva, un paesaggio roseo, verdino o azzurrino, una fantasmagoria del colore che le piaceva. I suoi sensi, sino allora equilibrati nella loro felice medianità, si affinavano, si assottigliavano, cadevano nella esagerazione della squisitezza.

Una volta la solida costituzione le faceva ricercare ed accettare ogni cibo; ora s’era fatta strana anche in questo. Si disgustava di tutto trovando un sapore di cenere alle cose più delicate… Comprendeva, istintivamente, di non poter più combattere con se stessa. Era impossibile la guarigione del male sconosciuto che guastava il suo spirito e il suo corpo. La sua ferma volontà era morta; ella non regolava più, con la mano bianca, il corso del suo destino. Era finita la sua forza, chinava la testa e l’onda la travolgeva.

Una sera ebbe freddo, molto freddo, nel grande salone; i divani le parevano pieni di spine, rigidi, stecchiti, come se la respingessero. Gli immensi specchi le rendevano l’immagine di una donna solitaria e miserabile. I quadri rimanevano smorti, inanimati nelle loro cornici. A chi apparteneva quella casa? Lei la odiava. Era un luogo ricco, splendido, freddo ed immobile. Neppure funebre, perché la morte suppone la vita. Aveva lasciato all’anulare della destra la fascia d’oro del matrimonio. Quelle mani ardevano e s’agghiacciavano insolitamente… Volentieri si abbandonava nella sua poltroncina prediletta. Il corpo inerte, i piedini sullo sgabello, la testa appoggiata alla spalliera, sognando, addormentandosi, risvegliandosi per sognare da capo. Era stanca dal mattino. Finché un giorno il suo cuore cominciò a scherzare. I suoi battiti crebbero crebbero; esso si gonfiava come se volesse spezzarsi per il sangue tumultuoso che vi si precipitava; ella non poteva più misurare i palpiti. Poi decrebbero lentamente, divennero piccini, scarsi, ineguali. Il volto era terreo, il respiro affannoso, le mani gonfie; e le parve di morire senza poter chiedere aiuto. Ma dopo una mezz’ora si era rimessa. Tutto si era quietato, anche il cuore… Ella principiava da capo a sperare… “

La protagonista di questa storia si chiama Beatrice. La trama del romanzo è presto detta: Marcello ama Beatrice che non lo ricambia. Marcello si innamora di un’altra donna. Beatrice si ingelosisce e comincia ad amare Marcello. Marcello torna da Beatrice ma la loro unione ha breve durata. Il cuore di Beatrice cede.

Ma per il finale, Matilde Serao ci riserva una sorpresa. A impossessarsi delle ultime pagine non è Beatrice, ma l’altra, la rivale che, seppellita Beatrice, non ha più ragione di essere e abbandonerà Marcello al suo destino: “Eravamo in tre ad amarci. Lo sapete bene! Addio”.