Articolo  di Cristina Morini da  Effimera

Marie Spartali Stillman, Antigone (1870)

L’imbarcazione della marina americana Trenton ha soccorso 40 persone in mezzo al mare. Li ha accolti a bordo martedì, dopo che un gommone che li trasportava si era rovesciato, al largo della Libia. Ha chiesto supporto alla nave della ong Sea Watch, che l’ha raggiunta, portando cibo e coperte, ma non si è fatta carico dei sopravvissuti in assenza di un porto sicuro dove attraccare. Roma non lo aveva concesso. Dopo due giorni, la nave americana è stata costretta a scaricare in mare i corpi dei migranti deceduti e in queste ore si sta dirigendo verso Augusta. Trasporta i superstiti, ma non ha celle frigorifere, perciò ha abbandonato i morti tra le onde. La sepoltura di questi corpi che non contano è stata affidata al Mediterraneo, come in così tanti altri casi che non riusciamo più a tenere il conto.

Dopo ciò che è successo alla Aquarius, come ha ricostruito Gennaro Avallone su questo stesso sito, le dichiarazioni di chi opera in mare si fanno caute, e terribili: “Morti non possiamo prenderne, non abbiamo celle. E i superstiti li prendiamo solo se ci assegnano contestualmente un porto sicuro che non sia più lontano di 36 ore di navigazione”. La proibizione di approdi sulle cose italiane, imposta del governo leghista, genera ovvie esitazioni e obbligate omissioni. L’abbandono dei corpi dei defunti è considerata una decisione estrema nel diritto del mare ma d’altro lato le ong vengono “minacciate” da Salvini di ricevere “lo stesso trattamento dell’Aquarius”.

Ho ripreso in mano Antigone e riletto il discorso con cui si oppone al tiranno Creonte, dopo aver disobbedito all’editto che proibiva la sepoltura del corpo del fratello Polinice, considerato un traditore e abbandonato da straniero, allo strazio dei corvi e agli avvoltoi, fuori dalle mura di Tebe: “Non fu Zeus a imporre tale proibizione, né fu la Giustizia pia, che abita sotterra, a fissar tale legge. Non potevo pensare che i tuoi proclami potessero violare quelle leggi del Cielo non scritte che non da oggi e da ieri, ma da sempre, sugli uomini si ergono immortali. Queste leggi non sono di oggi o di ieri: da sempre esse Sono; non si sa da quando siano apparse. Avrei potuto affrontare il furore dei numi per timore di un uomo arrogante?”[1].

Ho ripreso in mano Judit Butler che rilegge Antigone e afferma: “Riflettevo su questa figura domandandomi dei tentativi del femminismo di confrontarsi con lo Stato e di sfidarlo. Mi pareva che Antigone potesse contrapporsi alla tendenza a cercare l’appoggio della autorità dello Stato e delle istituzioni per realizzare gli scopi politici del femminismo per i quali le nuove femministe lottavano […] In realtà troviamo Antigone difesa e sostenuta da Luce Irigaray che la identifica con il principio della sfida femminile allo statalismo e ne fa un esempio di antiautoritarismo”[2].

I tempi in cui ci è dato di vivere richiedono che noi si ritrovi un universo valoriale e simbolico che sostenga la durezza e il pericolo della sfida al potere e l’atto di rivendicarla. Ci sono state mobilitazioni immediate in questi giorni, alcune città, italiane ed europee, e i loro sindaci, si sono dati disponibili ad accogliere le navi ostracizzate da Salvini, un movimento di città solidali sta assumendo un profilo. Nella giornata di ieri –io debbo scriverlo perché trovare parole che sostengano gli atti è fondamentale e ciò che deve spaventare è solo l’annichilimento – ho sentito il Papa denunciare in modo esplicito l’orrore di tali momenti, appositamente creati perché si generi la paura dell’altro, del povero “gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani”. Ha accusato “il nostro essere talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente”.

Compromettersi direttamente. Agire. Sappiamo da tempo che i cambiamenti che un periodo come questo richiedono – e sempre più richiederanno – implicano una rivoluzione che passi, prima di tutto, attraverso ciascuna e ciascuno di noi. Michel Foucault ci ha messo in guardia dal nemico ricorrente che possiamo trovarci davanti (dentro), “l’avversario strategico”: “il fascismo […]. E non soltanto il fascismo storico di Hitler e Mussolini, che ha saputo mobilitare e impiegare così bene il desiderio delle masse, ma anche il fascismo che è in noi, che possiede i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare proprio la cosa che ci domina e ci sfrutta”[3].

“Come liberare i nostri discorsi e i nostri atti, i nostri cuori e i nostri desideri dal fascismo? Come lavar via il fascismo che si è incrostato nel nostro comportamento?” chiede Foucault.

Ribaltare la legittimazione del discorso dell’odio. Ribaltare l’“obbedienza promiscua” a “trasmissioni aberranti”. Riconoscere e valorizzare quelle che sono già le relazioni negli spazi, nei quartieri, nelle comuni esistenze, con l’altro, con l’altra. Le esperienze materiali tra corpi e corpi che innervano la realtà quotidiana sono assolutamente più avanti dell’ottusità dei governanti. Riconoscere che è l’identica precarietà e povertà prodotta dal potere quella che ci sta ammazzando, da una parte o dall’altra del mare. Rafforzare le reti dissidenti. È insomma, ancora, la radice della rivendicazione di Antigone: “Tutti quelli che sono qui mi approverebbero, se il timore non frenasse le lingue. Ma la tirannide fra molti altri vantaggi ha anche quello di fare e dire ciò che vuole”.

Siamo tormentati dalle nostre solitudini, dalle spirali del silenzio generate dal dispositivo di precarietà, che impone il “quieto vivere” individualista ma non produce alcuna pace, neppure un lieve sollievo.

Creonte  incalza Antigone: “Tu non ti vergogni a volerti diversa da loro?”.

Nasce, una volta di più, proprio oggi, proprio qui, il tema della disobbedienza e del coraggio, che è anche il tema dell’orgoglio di incarnare un’idea diversa del mondo e dei rapporti sociali. Va denunciato il problema etico e politico di questo Paese che si sta inabissando verso la disumanità, non riconoscendo accoglienza né ai vivi né ai morti. Non accettare, non abituarsi all’orrore, avendo presente che tutto è già successo e che non si può rischiare di essere complici. Rifiutare di ritualizzare la catastrofe, rimanendo spettatori e spettatrici sulla sponda, ma trovando, viceversa, parole e azioni per immaginare e costruire un differente epilogo. Capire allora bene, innanzitutto, e combattere, gli atteggiamenti che ci “normalizzano” e ci portano ad accettare storture sociali e molteplici ingiustizie, rifugiandoci in una finzione di tranquillità che “non basta a rendere buona una vita cattiva” (Liana Borghi).

NOTE

[1] Sofocle, Edipo re – Edipo a Colono – Antigone, a cura di Dario Del Corno, Oscar Mondadori, Milano 2006, secondo episodio, vv. 376-581

[2] J. Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag. 11

[3] Michel Foucault Prefazione alla traduzione americana di “Anti Edipo – Capitalismo e schizofrenia (Les éditions de Minuit, Paris, 1972) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, 1977.