Francesca Pasini, nata a Venezia, oggi vive a Milano ed è critica d’arte. Ha curato diverse mostre tra cui Soggetto / Soggetto presso il Castello di rivoli. Collabora con Il Secolo XIX dal 1987.

Articolo di Francesca Pasini  Pubblicato il 25 febbraio 2018  da Alfabeta2

— Ho ripreso in mano Breve storia della curatela (Hans Ulrich Obrist, 2011, postmedia books) con le interviste a Walter Hoppes, Pontus Hultén, Johannes Cladders, Jean Leering, Harald Szeemann, Seth Sieggelaub, Werner Hoffman, Walter Zanini, Anne D’Harnoncourt, Lucy Lippard. Le loro esperienze vanno dalla fine degli anni ‘50 all’inizio del secondo millennio e tuttora sono un riferimento. Si può sempre partire dal basso e dare vita a musei, esposizioni cruciali, come hanno fatto loro? I movimenti di opinione esistono? O sono sostituiti da molecole in via di aggregazione?

Parafrasando Musil, mi sento “una curatrice senza qualità”, nel senso che devo imparare una diversa qualità per riconoscere e proporre la ricerca di uomini e donne, che oggi partecipano numerose alla scena contemporanea in tutti i campi del sapere, compreso quello dell’arte.

Tra le mostre che mi hanno offerto spunti per cercare “questa qualità” c’è la Biennale di Massimiliano Gioni nel 2013. Il suo Palazzo Enciclopedico ha messo in piena luce non solo un gran numero di artisti, tradizionalmente inseriti in espressioni “laterali”, ma anche molte donne di cui non si avevano più notizie. Ho apprezzato un’enciclopedia che superava le specializzazioni linguistiche. È stata una chiave di lettura non solo di singoli artisti e artiste, ma dell’arte contemporanea in generale. All’atteggiamento onnivoro, promosso dalla globalizzazione, Gioni contrapponeva il legame sedimentato tra presente e passato. Internet e le mostre in tutto il mondo ci avvertono di tutto, ma poi rimane la grande avventura dell’approfondimento, leggendo i libri, guardando le singole opere, accettando l’influenza anche di chi non ha avuto, o non ha ancora, influenza. Questo, per me, è il perno per interpretare l’arte, gli incontri, le letture, i viaggi. E già, oggi i viaggi entrano prepotentemente nei consumi culturali, le mostre sono “asterischi” nei programmi delle agenzie turistiche. È un bene? Credo di sì.

La moltitudine di persone che nel 2014 è andata al lago d’Iseo per “galleggiare” nella piattaforma di Christo e Jeanne Claude, ha risposto all’imperativo mediatico di esserci, ma sono convinta che l’energia dell’arte è forte quando provoca uno choc in ognuno, e non nell’epica partecipazione a code chilometriche. E qualcosa di quello choc ha sicuramente toccato qualcuno in quella folla. Per questo non sono moralmente contraria alle mostre per i grandi numeri.

Tuttavia, se penso a Szeemann e alla sua mitica mostra When Attitudes Become Form, sento la nostalgia per il sentimento di comunità tra chi crea e chi cura, tra chi ha già “un nome” e chi offre un’espressione allo stato nascente. Cosa che oggi non è così frequente.

Mi hanno molto colpito le mostre di Damien Hirst a Palazzo Grassi e Punta della Dogana (Treasures of the Wreck of the Unbelievable), durante l’ultima Biennale, e Take me (I’m Yours) a cura di Obrist, Boltanski, Parisi, Tenconi, all’Hangar Bicocca a Milano, di cui ho scritto sul sito di alfabeta, rispettivamente il 27 maggio e il 5 dicembre 2017.

Pur nella diversità, dalle due mostre ho preso lo spunto per affrontare la critica all’economia multinazionale che governa il mondo e l’arte. Le decisioni non dipendono più dagli Stati, ma dalle multinazionali che competono per il primato del capitale finanziario e non per il benessere sociale, politico, culturale dei singoli. In queste due mostre c’è un avvertimento utile per capire come inventare una grande mostra, ma anche per interpretare le molecole culturali che si muovono fuori e dentro la galassia globale, senza cadere nel rimpianto del tempo che fu e senza il conformismo di un’arte che supera le contraddizioni. Queste due mostre le hanno indicate in modo non univoco, possono, infatti, essere lette come critica, ma anche come accettazione di un dato di fatto. A ognuno la scelta. Ma non è questo il compito di un’opera che non voglia essere didascalica?

 

A questo proposito la mostra, appena inaugurata alla Fondazione Prada di Milano, POST ZANG TUMB TUUUM – ART LIFE POLITICS – ITALIA 1918-1943, a cura di Germano Celant, apre un capitolo interessante.

 

Il nodo è leggere la storia guardando “gli artefatti”, senza separarli dal contesto. Questa è la scommessa di Celant e, per affrontarla, propone uno straordinario apparato fotografico dell’epoca accanto, o meglio, dentro le opere esposte. Il suo intento è fuggire dall’ideologia del white cube, in cui – come scrive in catalogo – vede il cardine “della tipologia comunicativa modernista dei musei e delle istituzioni, delle gallerie e delle collezioni”. L’obiettivo è presentare uno “spazio reale”, in cui far emergere le relazioni “tra segni e tracce all’interno di un sistema culturale”, dove avviene “l’adattamento dell’artista che per sopravvivere al regime, difende la propria autonomia linguistica rimanendo però indifferente alla sua strumentalizzazione”. Nello “spazio reale di questa mostra” appare una verità nota: in Italia il consenso al fascismo era altissimo.

Uomini e donne, però, rimangono uomini e donne anche sotto il fascismo, forse è per questo che quadri e immagini consentono la scappatoia dal contesto attraverso l’emozione individuale. Anche il fascismo è stato un’emozione individuale. Allora, quando un’opera diventa figura di ribellione? E rispetto a chi?

Picasso ha dipinto Guernica e, prima di lui, Goya la fucilazione, fino ad arrivare alla foto del bambino nudo che scappa sotto le bombe in Vietnam. Icone dichiarate, di tragedie da non dimenticare, ma io credo che la ribellione di una figura dipinta, scolpita, fotografata, sia un ponte tra la propria ribellione e quella che vediamo rappresentata in una figura che non sono io, che non sei tu, che non è chi l’ha creata. In quel momento riconosco nell’opera un soggetto col quale dialogare, combattere, inorridire. Tutti abbiamo, alle spalle, parenti fascisti, ma li abbiamo frequentati, contestati, amati.

Quindi l’opera può andare oltre il fascismo esterno, cioè quello del contesto messo magistralmente in mostra da Celant, ma quello interno riemerge perché riflette chi la fa, chi la accoglie, chi la compra, chi la commissiona, e tutto questo non è asettico, nutre lo spirito del tempo. Sono rimasta colpita dalla visione “reale”, come direbbe Celant, di fotografie e opere che dicono che fascisti erano anche gli artisti. Ci sono, però, dei quadri che mi hanno mostrato un autoritarismo che da un lato ha trovato espressione in molte opere che hanno abbellito i luoghi e gli appuntamenti del regime; dall’altro fa vedere la condizione individuale interna del soggetto fascista.

In particolare, quello di Giuseppe Capogrossi, Il vestibolo (Donna bendata. Lo spogliatoio degli uomini), 1932. Un uomo e una donna, nudi, si tengono per mano mentre attraversano una sala con altri uomini nudi. Lei ha la testa bendata.

Ora come allora c’è tensione, sopruso, esibizione, possesso da parte di quest’uomo che mostra Lei davanti ad altri uomini in un luogo di potenziale aggressione. Tutto dipende dalla testa completamente bendata di lei.

Per me, questo è il simbolo del fascismo interno alla coscienza.

Anche gli artisti che, per sopravvivere si sono adattati, lo avevano dentro, tranne quelli che lo hanno rifiutato “che – sottolinea Celant – rappresentano una minoranza”. Un uomo e una donna, invece di avventurarsi nel mondo fuori dal paradiso, si presentano nel luogo simbolico della virilità, lo spogliatoio probabilmente degli atleti del regime. È un’iconografia impressionante.

Celant insiste molto nella definizione di “artefatti” e con acribia li collega alla storia reale, politica del fascismo. Una svolta importante.

Io preferisco definirli “soggetti” interlocutori, che mi raccontano la loro vicenda di figure autoritarie messe al mondo dagli artisti. Influiscono nel mio contesto? Sì. Mi permettono di vedere in quello specifico “soggetto” il fascismo che non ho vissuto, ma anche l’autoritarismo che continua ad esistere.

Come “curatrice senza qualità” vorrei fare tabula rasa rispetto alla promozione dell’opera e organizzare le mostre dentro gli studi, come ho fatto con Arianna Giorgi lo scorso settembre a Milano. Questa è la mia risposta alla sollecitazione di Celant di abbandonare il white cube e la mia ricerca di qualità per non separare “l’artefatto” dal suo, e dal mio, divenire soggetto in dialogo con l’arte.