Morire, e lasciare traccia
La notizia è nota: Roberta Tatafiore, giornalista, femminista, autrice di
importanti testi sul mercato del sesso e attivista per i diritti dei e delle
sex workers si è uccisa lo scorso mercoledì a Roma, in un albergo poco
distante dalla sua casa. Una morte decisa da mesi, accuratamente preparata
affinchè le amicizie ne fossero all’oscuro, anche per evitare comprensibili
tentativi di dissuasione.
_ Una morte che lei stessa definisce “{una scelta a
lungo riflettuta, preparata, accompagnata negli ultimi tre mesi dalla
stesura di un diario, impegno che ha dato luce a questi miei ultimi
giorni}”.
_ Diario spedito da Roberta poco prima di uccidersi ad alcuni amici
e amiche, che era stato anticipato da una serie di riflessioni apparse su{ Il
Foglio}, dove lavorava ultimamente.
Questo mio non vuole essere un
necrologio, considerando che altri e altre in questi giorni ne hanno scritto
di intensi e pieni di ricordi un po’ su tutta la stampa.
L’ho conosciuta quando ero troppo giovane per poter intrecciare un rapporto
che non fosse, da parte mia, solo di rispetto e ammirazione; all’epoca, la
giovane ventenne che ero guardava alle ‘mitiche’ colleghe di {Noidonne}, tra
cui una fiammeggiante Tatafiore trentacinquenne, come inarrivabili esempi ai
quali ispirarsi, per realizzare il sogno di fare questo mestiere dandogli
una forte connotazione politica e femminista.
Per come Tatafiore era apocrifa e controcorrente (non è mai stato semplice
né a sinistra, né nel femminismo, esprimere pensieri dissacranti e ostici,
come i suoi, specialmente sulla sessualità e sul mercato sessuale) non mi
stupì più di tanto la sua scelta, qualche anno fa, di intrecciare relazioni
nei giornali e negli ambienti della destra.
Anche questo passaggio così difficile da comprendere, e per certi aspetti
impensabile, mi fece molto riflettere, come in precedenza nel caso di Tina
Lagostena Bassi, su molti aspetti dell’inospitalità dei nostri luoghi
collettivi a sinistra e del femminismo, siano essi giornali, gruppi,
associazioni, partiti.
Con questo non voglio dire che se i nostri luoghi
fossero migliori e più accoglienti nessuna ne se andrebbe, ma di certo
alcuni conflitti, pur necessari, forse non avrebbero come esito cesure e
perdita di relazioni, di risorse, di scambio.
Se si pensa al suicidio è automatico associarlo alla sconfitta,
all’abbandono, alla perdita, al dolore e alla resa, spesso connesse con la
malattia, quella fisica e soprattutto quella psicologica.
_ Gli esempi sono
tanti: la depressione di Virginia Woolf, la fragilità psicotica di Sylvia
Plath, la dolente visionarietà profetica di Karin Boye, la melanconia di
Marina Cvetaeva.
_ Eppure Roberta Tatafiore non era malata, aveva fatto scelte libere e
consapevoli, a sessantesei anni era nel pieno dell’attività, aveva un
consolidato successo e autorevolezza pubblica.
Quindi, ecco la domanda
difficile: perché uccidersi? Non c’è affronto e dittatura più inesorabile
della morte, perché con essa si chiude, almeno qui sulla terra e tra gli
umani, la possibilità di dialogo reale, carnale, con tutti i cinque sensi
che possono aiutare a fare chiarezza e ridurre le distanze, che pure
restano, e possono essere mitigate nel dialogo.
Eppure, anche nella modalità scelta da questa donna dalla mente affilata e
in constante ricerca di domande con le quali scandagliare la realtà mi pare
di scorgere una offerta, (certo del tutto unilaterale), di chiarezza, molto
in sintonia a quella che in vita ha proposto.
Sulla prostituzione, ad
esempio, ha sempre detto chiaro e tondo che si trattava di ‘atti
capitalistici tra adulti consenzienti’, un bel pugno nello stomaco sia al
moralismo cattolico ma anche a quello che lei definiva ‘femminismo
collettivista’.
Nel suo nuovo mondo a destra non era stata meno critica:
aveva bollato di {statalismo chiesastico} chi proponeva la pessima legge a
seguito del caso Englaro. La sua scelta di libera morte è un dono doloroso
ma prezioso, proprio in tempi così spietati, ottusi e pericolosi sulle
scelte del fine vita.
Quando non riesco a capire, o ad accettare, i passaggi duri che il percorso
della vita mi pone dinanzi vado a cercare tra le pagine di un libro,
{Distacchi} di Judith Viorst.
Nel capitolo sulla morte, il distacco più temuto, leggo che il filosofo
Walter Kaufmann sostiene che “{se ultimiamo, di fronte alla morte, nella gara
con la morte, un progetto che sia veramente e unicamente nostro, il nostro
cuore potrebbe morire più volentieri perché, in un certo senso, abbiamo
trionfato su di essa}”.
La Viorst ragiona a partire da questa suggestione
raccontando il sollievo di una figlia, e la gratitudine verso suo padre che,
in procinto di morire, si mise a fare ordine trascorrendo gli ultimi mesi
salutando, perdonando, sistemando le cose, lasciando in questo modo a lei un
grande regalo: se è vero che la morte ci separa da chi amiamo, è anche vero
che il percorso verso la morte, quando è possibile, può essere vissuto e
praticato pienamente come trionfo dell’autodeterminazione e della vita.
La romanziera Muriel Spark scrive, nel suo {Memento Mori}: ”{la morte dovrebbe
far parte delle aspettative di vita. Senza un senso della morte sempre
presente la vita è insipida. Potresti, alla stessa stregua, vivere solo di
chiare d’uovo}”.
Giorgio Gaber cantava di non aver conosciuto mai qualcuno che buttasse lì
qualcosa, e andasse via. Ora c’è: spero tanto che il diario di Roberta, che
solo per il fatto di essere stato concepito e scritto considero un
eccezionale testimonianza di laicità, chiarezza e comunicazione condivisa,
sia reso pubblico.
_ Perché abbiamo, noi che restiamo, un immenso bisogno di
parole sulla possibilità di scegliere, sulla libertà, sulla morte, e quindi
sulla vita.
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