NAPOLI. PALAZZO PICO INTITOLATO A MONICA TAVERNINI
La giunta regionale ha approvato oggi, su proposta del Presidente Vincenzo De Luca, l’intitolazione di Palazzo PICO, il “Palazzo dell’Innovazione e della Conoscenza” di Napoli a Monica Tavernini”, consigliera regionale deceduta nel dicembre 2009.
Già dipendente dell’Alfa Sud dalla quale mosse i primi passi nel mondo politico e sindacale, la Tavernini da consigliera regionale è stata sostenitrice delle istanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle donne, dai portatori di handicap e, in genere dalle categorie più deboli, contribuendo non poco alla evoluzione della normativa regionale in materia sociale. ( Comunicato stampa della Giunta regionale della Campania 18 luglio 2017)
Marco Rossi Doria nel 2009 ha scritto su La Repubblica .it – Monica Tavernini il coraggio della libertà –
Monica Tavernini è vissuta ed è morta come una Socrate dei nostri tempi. Una, al femminile. Perché, con pacata caparbietà, Monica ha sostenutoe sorvegliato- nella dimensione politica come nella vita di ogni giorno – la cura autentica e curiosa per le relazioni umane, l’ acuta sensibilità verso le emozioni,i piccoli gestiei silenzi di ciascuno, l’ ascolto di se stessa e il rispetto per la finitezza di tutte le cose, compresa la sua stessa vita. Solo una grande sapienza al femminile può trattare le vicende pubbliche e private come Monica le ha sapute trattare. Fino all’ ultimo, con quotidiana semplicità, temperanza, ironia. Staremo in tanti e per lunghi annia pensarea quante cose ci ha insegnato e a chiederci se sapremo condurci così fino alla fine. Monica amava la politica in senso proprio. L’ appassionava lo spirito migliore delle città, il senso della cosa pubblica, il rispetto dell’ interesse generale. er questo, quando vi era una qualsiasi questione politica, lo sguardo interiore di Monica non andava solo a vagliare i rapporti di forza o le occasioni o gli spazi che l’ agone politico sempre offre e non si fermava solo sulle possibilità di un’ opzione o dell’ altra; tutte cose che pur sapeva che contavano e che sapeva fare. Il suo sguardo andava a scrutare i fondamenti delle leggi che consentono la vita civile, quelli che salvaguardano le comuni ragionevolezze dalle tentazioni del potere e dai demoni che distruggono anziché costruire. «La mia misura di fronte alla ragion di Stato e alla politica – che si fa ora – resta Antigone». Lo diceva e ripeteva Monica, scherzando con benevolenza arguta sulle cose serie, come sapeva fare. È anche per questa fedeltà alla politica in senso alto, contraria al “saper fare politica” odierno, che Monica ha voluto e saputo «lasciare un brillante avvenire politico dietro le spalle», come lei stessa usava dire. Si era iscritta ventenne al Pci nel 1974 ma «non ero comunista, mi piaceva il socialismo, che, però, non c’ entrava nulla con quella roba lì». Quando parlava del secolo scorso, Monica pareva sospendere i pensieri, poi li diceva con convinzione: «Ma il muro di Berlino a me non è crollato addosso; perché io davvero mi sono scansata per tempo; a quel mondo lì non ci ho creduto mai. Ma quanta brutta ruggine di quel mondo è restata addosso a tanti, che non sono proprio voluti cambiare davvero». È con uno straordinario spirito libero che Monica è stata sindacalista e giovanissima segretario del Pci dell’ Alfa Sud. E oggi mi piacerebbe che le ragazze che entrano la mattina nella fabbrica di Pomigliano, operaie di molte nazionalità, si potessero fermare a pensare almeno per un minuto a cosa poteva essere la vita quotidiana di una giovane bella donna femminista che guida, negli anni Settanta, centinaia e centinaia di operai maschi nel «prospettare un futuro migliore». Da allora Monica ha sempre conservato il suo impegno nel sindacato – la Cgil – per la quale nutriva un legame irrinunciabile e avvertiva l’ urgenza di un sommovimento culturale, fondato sulla crescita della responsabilità individuale. Dai partiti, invece, si era allontanata radicalmente. Il loro esprimersi, qui più che altrove, come interessi separati, la follia che permea i costanti giochi di potere interno, il culto servile dei capi, le verità taciute e i compiti disattesi erano altrettante prove della inaccettabile miseria a cui si erano purtroppo ridotti, che lasciava spazio alle carriere, agli opportunismi, al nulla. Monica ha fatto con grande serietà e competenza il consigliere comunale e regionale. «Studiavo la notte le cose che non sapevo e per la frustrazione a volte mi veniva da piangere». Ha fatto la politica di mestiere ma sempre come rigoroso servizio alla cosa pubblica, con un rispetto estremo per le istituzioni «che vengono prima di ogni parte politica». Quando le è risultato evidente che questa prospettiva si era drammaticamente indebolita ha lasciato questo campo. Con l’ elegante sobrietà che l’ ha accompagnata sempre: «Da venti anni non faccio più quella vita. Sono troppo incuriosita per tutto il resto che mi accade, troppo sincera o forse distratta a tal punto da non saper dire bugie o forse anche troppo pigra per restare viva in quell’ ambiente». Così Monica ha dedicato da anni molto proficuo tempo ad altro: le letture, la famiglia, l’ amicizia. E, oltre al sindacato, ha fatto parte delle battaglie civili a strenua difesa della laicità dello Stato e dei diritti individuali e all’ impari impegno per pensare a un sensato modo di fare ripartire la nostra città. Monica ha amato immensamente la letteratura. Per lei è diventata sempre di più il grande, sapiente specchio della sua vita. Così pochi giorni fa, guardando con un coraggio disarmantee immenso alla sua stessa fine, ha ricordato un passaggio delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: “…come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’ Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte”. Monica davvero lascia un grande vuoto. Tanto che oggi si stenta a parlare. Quando saremo pronti, dovremo dedicare un giorno su una spiaggia davanti al mare che adorava – un tempo di convivio giocoso e di parole – per onorare Monica, cittadina superba della nostra città e delle nostre vite. In quel momento qualcuno leggerà il verso di Ossi di seppia di Eugenio Montale che Monica, pochi giorni prima di sapere della sua malattia, con una di quelle stranezze che a volte accadono nella vita, aveva eletto come suo epitaffio: Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,/ se dal tuo volto si esprime libera un’ anima ingenua,/ o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua/ e recano il loro soffrire con sé come un talismano.