NEL DOMINIO DEL PADRE un libro di Daniela Lucatti, Elena Liotta e Massima Baldocchi che ci allontana dal brusio dei luoghi comuni
Daniela Lucatti fa parte dell’Associazione Casa Della Donna di Pisa ee è anche psicoterapeuta del Centro Antiviolenza. Circa un anno e mazzo fa ha scritto il libro “Nel Dominio del padre” insieme alla psicoanalista Elena Liotta supervisora di molti centri antiviolenza e Massima Baldocchi avvocata. Il testo, edizioni Magi, è stato pensato per affrontare il problema emergente dell’affidamento dei figli nei casi di separazione dove è stata agita violenza. Questo lavoro affronta anche l’annoso fenomeno della P.A.S. che anche se solo di recente desautorata, sta per essere reinserita attraverso gli ultimi disegni di legge contro l’alienazione parentale.
Vi proponiamo quanto scritto su questo volume da Lucia Franchini Difensora civica della Regione Toscana e Presidente del Coordinamento nazionale dei difensori civici regionali e delle province autonome
La lettura di questo libro ci allontana subito, fin dalle prime righe, dal fastidioso brusio dei luoghi comuni dell’opinione
pubblica così come dalla talvolta scontata retorica degli addetti ai lavori e delle autorità politiche, amministrative e giudiziarie. Ci allontana perché ce le rende insopportabili. E poi ci sono loro: i mariti violenti e i padri assenti, le mogli abusate e le madri soggette alla follia come presidio per prevenire l’oppressione dei figli, quei figli inascoltati, zittiti, negati in un’incredibile e perversa tela di emarginazione sociale, di pregiudizi culturali radicati, di una sconfitta convivenza civile: diari di dolore, paura e solitudine.
“Al di là delle responsabilità individuali, ciò che qui voglio sottolineare è il richiamo alla «sordità» e «autoreferenzialità » delle istituzioni e dei professionisti che dovrebbero predisporre la risoluzione di questi conflitti, anzi, prevaricazioni.
Richiamo posto non dall’esterno, non semplicemente dai soggetti violati e disattesi (donne e bambini) ai quali potremmo imputare il «vizio» dell’emotività della tragedia vissuta (peraltro «emotività» sempre accostata al manchevole discernimento femminile), ma da terapeuti, psicologi, avvocati, cioè da coloro che vivono e lavorano dentro il sistema. Esiste una dualità, ormai accettata, con partecipazione o rassegnazione a seconda dei momenti, ossia le dichiarazioni di principio, le sottoscrizioni di atti comunitari, i corsi di formazione e i convegni e, dall’altro, nell’agire quotidiano di quelle stesse istituzioni ed operatori la disattenzione e l’annullamento di tutto ciò che collettivamente e mediaticamente assumiamo come criteri guida Nel dominio del padre delle nostre azioni. Esiste cioè uno scarto evidente tra i due livelli, teorico e giuridico, da un lato, e pratico o di costume,
dall’altro, tra la nitidezza delle proclamazioni e l’ambiguità delle loro realizzazioni.
Come difensora civica conosco questa dualità che conduce all’inerzia: certo non aiuta l’ipertrofia legislativa del nostro paese, non aiuta il fatto che sia istituzionalizzato un solo livello, quello giudiziario, di risoluzione dei conflitti e che l’accesso a questo sia oneroso in termini di tempi e costi, non aiuta la cultura ancora prevalente in Italia di considerare le istituzioni più come «autorità» che «centri di servizio» e ciò comporta che il dialogo tra operatori di queste istituzioni sia privilegiato rispetto all’ascolto del semplice cittadino.
Eppure nel costituzionalismo europeo, e in quello italiano in particolare, il rapporto fra diritti fondamentali e concezione della cittadinanza è fondato sulla garanzia di un originale concetto di eguaglianza: non più solo l’uguaglianza che vede come intollerabili le discriminazioni fondate sulle differenze di sesso, di religione e di razza, bensì un concetto di uguaglianza che ritiene inaccettabili le differenze che si fondano sul rapporto economico e sociale, e intollerabili le differenze fondate sulla capacità di reddito.
Così i diritti sociali, unitamente a quelli classici di libertà, sono assunti come «costitutivi» del principio costituzionale
di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) e al contempo, del valore della persona (art. 2), si afferma cioè la centralità della tutela e della promozione dell’individuo riconoscendo la priorità assiologica della persona umana, portatrice di valori e di bisogni, materiali e spirituali, rispetto allo Stato e all’intera organizzazione dei pubblici poteri.
Sono diritti inviolabili, riconosciuti a tutti gli individui in quanto tali e non ai soli cittadini, ma è anche chiaro che l’interpretazione di questa concezione dei diritti si muove all’interno di una dimensione con forti elementi di variabilità
proprio perché il loro fondamento è all’interno del contesto socio-culturale ed economico e le sue componenti ne influenzano e ne obbligano l’orientamento come i successivi sviluppi.
A maggior ragione dobbiamo essere grati alla raccomandazione che ci viene posta dalle autrici: all’interno di
questo quadro gli stessi diritti hanno «tutele differenziate»: può impoverirsi la tutela dei diritti economico-sociali (specie
in momenti di crisi globale) a fronte dell’innalzamento della tutela etico-sociale (per la crescita e l’assimilazione
culturale). Similmente nel raffronto tra tutele di diritti delle persone, più ampio è lo spazio di autodeterminazione individuale
più ampie possono essere le tutele. Senza nascondere le difficoltà e le tensioni nel raggiungere quel presupposto
di imparzialità, servizio e uguaglianza dell’agire della pubblica amministrazione e la contraddizione in termini
perché i diritti non dovrebbero avere una «pesatura» diversa, è compito nostro affermarli in ogni aspetto della nostra
esistenza, a maggior ragione in ambito professionale con un esercizio che sappiamo essere primario e fragile al
contempo, esercizio che ha sempre bisogno di attenzioni e consolidamenti, di rinnovate pratiche, di memorie e sguardi
verso il futuro.”