Nemesis 194
Può davvero il recente susseguirsi e il moltiplicarsi di appelli alla mobilitazione di piazza per la 194, essere considerato un gesto etico e politico in difesa della vita delle donne o c’è forse in quella Legge – e nella Nemesi che essa incarna e rappresenta nell’immaginario femminile – qualcos’Altro da difendere – un primato simbolico irrinunciabile, qualcosa dell’ordine di un Risarcimento – qualcosa, insomma, di talmente irriducibile da diventare per le donne stesse una questione di vita o di morte?“L’interruzione della 194 è contro la vita delle donne” – si leggeva tempo fa su fb.
L’enunciato paventa, con la parola “interruzione”, un pericolo reale e ribadisce che la 194 è una Legge a tutela della vita delle donne e che, come tale, va difesa.
Dicevano, un tempo, le donne, che la 194 non era – e mai avrebbe potuto/ dovuto diventare – un mezzo di contraccezione e a trentacinque anni di distanza dall’approvazione di quella Legge tanto sofferta, sono ancora le donne – le stesse, forse, assieme ad altre di nuova generazione – a difendere, in queste ore, con rinnovato vigore – con unghie e denti – quella Legge.
Si può dar loro torto? Certo che no. Millenni di oppressione lasciano segni indelebili, nell’anima, nei corpi, nelle parole. Cicatrici immedicabili che solo Némesis – la figura della Vendetta della mitologia greca che ripara i torti attraverso la punizione dei colpevoli dando luogo a una Giustizia compensatrice – può lenire.
Dicevano, le donne, con tutta la forza e l’intensità della passione che allora, negli anni ‘70 avevano in corpo e che ha fatto nuovamente irruzione in questi giorni, che lo scopo primario della Legge era la difesa della vita di tutte quelle donne che, alla mercé delle “mammane” e in assenza di un’adeguata regolamentazione sull’interruzione di gravidanza, ci avrebbero rimesso – come altre prima di loro – la pelle.
La 194 era dunque, al principio, e per quanto paradossale agli occhi di molti potesse sembrare, una legge per la vita e non per la morte. Era e ancora lo è. O, almeno, così pare.
Sarà pure così ma c’è qualcosa – nei drammatici enunciati pro life di questi giorni e nei convulsi appelli alla mobilitazione di piazza cui le donne vengono convocate a tutela di una 194 barcollante – che stona, che stride e che, a conti fatti, rifatti e strafatti, non persuade del tutto.
Neppure Lonzi, si sa, ne era entusiasta. Lei che, come poche altre, sapeva avventurarsi e spingere lo sguardo oltre la superficie, ogni qualvolta si trattava di smascherare – in qualsiasi forma si celasse, persino in quella “sublime” della legalizzazione – la logica assoggettante e perversa del dominio maschile e la subordinazione delle donne da tale dominio.
“{La liberalizzazione dell’aborto è diventata, attraverso millenni, la condizione mediante la quale il patriarcato prevede di sanare le sue contraddizioni mantenendo inalterato il suo dominio}”. (Lonzi, {Sessualità femminile e aborto. Rivolta femminile} 1971)
“{Cercare di mettere al riparo le nostre vite attraverso una richiesta per la legalizzazione dell’aborto, porta, sotto considerazioni pretestuosamente filantropiche e umanitarie, al nostro suicidio: in modo indiretto viene riconfermata la prevalenza di un sesso su un altro intanto che l’altro sembra andare incontro alla sua liberazione}”. (Ibid.)
“(…) {l’aborto non è una soluzione per la donna libera, ma per la donna colonizzata dal sistema patriarcale}” (Ibid.)
“{Il concepimento è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà che rimandi a tempo imprecisatamente lontano il momento in cui essa si chieda se risale alla cultura, cioè al dominio dell’uomo, o all’anatomia, cioè al destino naturale, il fatto che essa rimane incinta}”. (Ibid.)
{“La legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile (…). La donna suggellerà attraverso uno sdrammatizzato esercizio della sua utilizzazione la cultura sessuale fallocratica}”. (Ibid.)
Scriveva così Lonzi nel ’71. Ma nell’incrociare questi pensieri, c’è qualcos’altro che oggi, più che in passato, dà da pensare: l’inquietante divario, l’incolmabile scarto fra gli appelli a una mobilitazione in difesa della vita di coloro il cui pericolo – l’interruzione di gravidanza – è del tutto potenziale, e una totale assenza di iniziative impegnate a contrastare quella che appare ormai come una vera e propria carneficina: il tragico susseguirsi, in questi anni, di stupri e massacri di vite perdute e già subito dimenticate o destinate, tutt’al più, a riempire lugubri cerimoniali e sequenze funerarie senza che foglia si muova.
Due pesi e due misure per la vita e contro la morte. Due pesi e due misure che potrebbero anche dileguarsi, inosservati, nell’insignificanza se non fossero lì a rivelare una bizzarria: a pesare di più sulla bilancia della difesa della vita, non sono le morti realmente avvenute ma le morti immaginate come possibili.
{{Di qui alcune domande:}}
– Perché le donne si sono fatte promotrici di una mobilitazione di piazza sulla 194 in difesa della vita delle loro simili mentre non si sono mai attivate nella stessa misura, in tutti questi anni, per convocare L’Agorà su degli eventi incomparabilmente più gravi, su dei crimini per i quali a necessitare di difesa e ad assumere carattere di urgenza nell’hic et nunc, non sono le vite a rischio potenziale ma le vite giornalmente distrutte da una violenza ampiamente testimoniata dal crescente numero di donne uccise?
– E se è a una difesa non discriminata della vita che sono davvero interessate coloro che difendono la 194, CHE COSA interessa loro VERAMENTE difendere, difendendo, con tanto accanimento, con questa Legge, le morti potenziali, indifferenti a quelle reali?
– Può davvero il recente susseguirsi e il moltiplicarsi di appelli alla mobilitazione di piazza per la 194, essere considerato un gesto etico e politico in difesa della vita delle donne o c’è forse in quella Legge – e nella Nemesi che essa incarna e rappresenta nell’immaginario femminile – qualcos’Altro da difendere – un primato simbolico irrinunciabile, qualcosa dell’ordine di un Risarcimento – qualcosa, insomma, di talmente irriducibile da diventare per le donne stesse una questione di vita o di morte?
La 194 è la memoria di una data: 22 Maggio 1978: è la data inaugurale di una Nemesi, di una prima grande Vendetta Simbolica perpetrata dalle donne nei riguardi dell’uomo in riparazione dei torti subiti, è il trionfo di una Giustizia “divina” compensatrice. Una Vendetta fagocitata da un risentimento e da un’indignazione vivi, brucianti e inestinguibili per un’antica ferita: millenni di storia di esclusione simbolica subita che trova finalmente tempo e luogo e Voce per rivoltarsi contro quel genere maschio artefice e responsabile della loro esclusione dalla polis.
Ben si comprendono, al di là delle motivazioni “di copertura” – la difesa della vita delle donne – le ragioni ancestrali e profonde della reattività scatenata nelle donne da una 194 la cui “sacralità”, trattandosi di una Giustizia “divina” – è in costante pericolo.
Nulla, in effetti, se non lo “Spirito di vendetta” – sarebbe in grado di spiegare degnamente l’esclusione programmata – “in forza di Legge” – dell’uomo, che pure ha, nella generazione, una parte, ma a cui è concesso dire la sua parola se e solo “ove la donna lo acconsenta”.
Non vorrei essere equivocata. Non sono qui in questione l’autodeterminazione e la libera scelta della donna alla quale spetta – e deve spettare – nella decisione, l’ultima parola.
Ad essere in giuoco, qui, è ben altro: è l’omissione e la negazione della “relazione” – una parola amata, abusata e generosamente spesa dalle donne in questi anni – su cui la partita uomo-donna, in definitiva, si giuoca.
E se c’è una cosa autoevidente, è che il concepimento presuppone, solitamente, la partecipazione di due corpi e dunque una relazione a due che contrasta con l’idea di proprietà e/o di possesso esclusivo che ha di mira l’esclusione dell’altro da un atto generativo che, tanto o poco, lo riguarda.
“L’utero è mio e me lo gestisco io”. Vero. E sono mie tante altre cose: la gestazione, con la sua trasformazione del corpo, le nausee, i dolori del parto, lo svuotamento-sfinimento da allattamento, i sonni perduti, il gravame di una fatica e di una responsabilità tutta mia, solo mia.
E sia. Ma comunque vogliamo definire il prodotto di una fecondazione, dobbiamo pur ammettere che quel prodotto – che, diversamente dall’utero, non è proprietà di nessuna/o – è la risultante di un atto a Due di una relazione a due.
Che posto ha, che ne è di questa relazione, di cui tanto si parla, all’interno di questa Legge? E non parlo di stupri.
E’ una partita la 194, che la donna ha deciso di giocare, una volta tanto, da sola, senza l’altro. E’ la riproposizione simbolica vendicativa di un Gesto subito:
{Nella narrazione mitica ci sono due casi eclatanti di generazione autosufficiente; uno è quello della generazione di Dioniso, e l’altro, ancora più evidente è quello di Atena. Il quadro simbolico è molto chiaro.
Zeus (grande campione dello stupro) violenta una mortale che si chiama Cibele e la ingravida. Quando lei ha nell’utero l’embrione, Zeus la incenerisce col fulmine, prende l’embrione che miracolosamente si era salvato e se lo mette nella coscia interna.
L’embrione cresce regolarmente e dopo nove mesi nasce Dioniso. Ecco una rappresentazione del parto maschile autonomo, che ha dei tratti realistici e dei tratti simbolici molto importanti (…). La misoginia e l’invidia dell’utero hanno una rappresentazione velocissima e in una sequenza logica che non lascia dubbi a nessun interprete}. (A, Cavarero, Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale)
Ebbene, forse che la riproposizione simbolica rovesciata di questo antico Gesto di sottrazione e di appropriazione, possiamo considerarlo un progresso?
Difficile cavarsela con un sì o con un no. Ma quel che so per certo, è che la giustizia, quell’alto senso della Giustizia da cui le donne – secondo Weil – sarebbero “dominate”, difficilmente si sposa con lo “Spirito di vendetta” – quale che sia il genere che lo mette in atto.
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