La prima parte dell’articolo dedicato a Marilyn si può leggere qui (ndr)

La solitudine è stato uno dei sentimenti che più ha accompagnato Marilyn: la profonda problematicità dei suoi vissuti l’ha portata a sottoporsi più volte a trattamenti psicoterapeutici ma, come bene sottolinea Luciano Mecacci (L. Mecacci, Il caso di Marilyn e altri disastri della psicoanalisi, Bari-Roma, Laterza, 2000) nel suo pungente testo sulla vita dell’attrice, Marilyn può definirsi una testimone di quanto possa essere inopportuna un’eccessiva vicinanza o addirittura una frequentazione fuori dal setting fra il terapeuta ed il paziente.

In questa direzione ci portano anche le sagge parole di Bruno Bettelheim.

La differenza fra un paziente ed un terapista consiste nel fatto che il terapista può percorrere il ponte a suo piacimento in entrambi i sensi. Egli sa in qualsiasi momento fino a che punto può spingersi con sicurezza nel mondo caotico che si estende al di là del fiume che separa la ragione dalla follia, così come sa quando è il momento di affrettarsi a ritornare da quel territorio estraneo nel mondo della ragione.

Esiste però nella terapia stessa un limite, un’imponderabile: queste sono le frasi che, poche settimane dopo il suicidio dell’attrice, scrisse Anna Freud aldottor Greenson, l’ultimo di una lunga serie di analisti che ebbe in cura la Monroe.

Ci s’interroga sempre per capire (…) perché una cosa del genere lascia un tremendo senso di sconfitta (…): l’analisi con tutti i suoi poteri è un ‘arma troppo debole.

All’epoca di Sigmund Freud, morto esule a Londra nel 1938, l’esercizio professionale non era vincolato all’ossequio di alcun codice deontologico a sua volta normato da leggi. Perciò una rilettura attenta di quanto narrato in merito ai vari trattamenti analitici ai quali si sottopose l’attrice durante la sua breve vita (ed è un riesame minuzioso nel quale Luciano Mecacci non fa alcuno sconto), induce un senso di sgomento.

Altrettanto stupore suscita un recente testo di Anthony Summers (A. Summers, Dea Le vite segrete di Marilyn Monroe, Milano, La nave di Teseo, 2022) un libro nel quale con particolare acribia e dovizia di particolari la vita di Marilyn, le sue relazioni, le sue profonde ferite ci vengono raccontate con grande chiarezza e rispetto.

C’è un contenuto e costante desiderio di sincerità e verità.

Per sfuggire a 16 anni ad un’adozione Norma Jean contrasse un matrimonio che si rivelò un fallimento: non fu capita, tanto meno rispettata bensì fu usata e regolarmente tradita. Aveva scelto James Dougherty solo perché incapace di suscitarle repulsione. Le relazioni dell’attrice, ancor prima di diventare così famosa, erano spesso burrascose, intense, ma conflittuali. Forse il tentativo di ritrovare il filo di un dialogo con se stessa, di soddisfare i bisogni di una ragazzina ostinata ed abusata, di sanare le ferite di una bimba che nasce come orfana di fatto perché regolarmente traslocata da una famiglia adottiva all’altra, si traducevano anche in decisioni di contrarre unioni con partner che si rivelarono oltremodo incompatibili. Nella ricostruzione storica fatta da Summers sono anche formulate perplessità e manifestati dubbi in merito alla morte dell’attrice. Fu un suicidio vero? Oppure un suicidio sul quale l’ attrice ebbe poi un ripensamento ma non fu tempestivamente aiutata ad evitare le terribili conseguenze? Fu, bisbiglia sempre l’autore, invece un omicidio mascherato da suicidio?

In mancanza di dati ulteriori in grado di comporre il puzzle, fatto anche di incongruenze e contraddizioni, rimane indefinita ma altrettanto sancita inamovibile un’azione di nocumento animata dalla volontà di porre fine alla propria esistenza.

In questa direzione autodistruttiva per l’autore possono anche essere letti gli aspetti di grave instabilità che hanno costellato l’esistenza dell’attrice.

Per tanto tempo l’immagine di Marilyn Monroe ha oscillato fra la banalizzazione di (rappresentare un) mero sex symbol e la tragicità insita nelle sue relazioni familiari, con ruoli genitoriali praticamente assenti e scarse amicizie, fatta eccezione per quella, nell’età adulta dell’attrice, con Lee Strasberg e la sua famiglia.

Marilyn Monroe era un groviglio di contraddizioni, un sex symbol che non trovò felicità nell’amore, un’attrice che si faceva prendere dal terrore ogni volta che metteva piede sul set. Aveva la passione di imparare e non imparò mai a convivere con se stessa. Alla fine precipitò in una condizione che era molto vicina alla follia.

Era una donna della quale invaghirsi era la più logica delle conseguenze per quella bellezza sensuale e voluttuosa che ne profumava gesti e parole.

Per Arthur Miller, terzo marito, ha rappresentato la donna più femminile che si possa immaginare. Con lei si vorrebbe morire. Questa ragazza è una sfida per ogni uomo (…) E’ una specie di magnete che tira fuori dall’animale maschio le sue qualità essenziali.

In un’intervista rilasciata dallo stesso Miller viene descritta però una Norma Jean (in arte Marilyn) capace di conservare la capacità di sentire e cercare relazioni autentiche, una persona in grado di dominare l’impulso di buttarsi via, ma così ossessionata con la storia che era una cattiva ragazza e che non valeva niente da sviluppare un enorme impulso autodistruttivo.

Questo potrebbe spiegare i vari trattamenti psicoterapeutici, anche l’abuso di alcool e psicofarmaci, soprattutto quello stare sul bordo delle situazioni correndo il rischio reale di precipitare, un tratto di personalità che inquietava molto gli analisti che l’ebbero in cura. Va anche sottolineato che intorno agli anni ‘50/’60 imperversava in America la mania della psicoanalisi ma, come ebbe modo di rilevare lo stesso Miller, si incontravano anche molti truffatori in giro, di dubbia onestà, che si erano conquistati successo solo in virtù di parlantina e capacità di autopromozione, andando ad alimentare un mercato fiorente i cui potenziali e frequenti fruitori erano attori ed attrici fortemente nevrotici.

E. Corday, che curò Marilyn dal 1948 fino alla metà degli anni ‘50, intuì fin da subito che la gente avrebbe capito meglio la morte di Marilyn se avesse sentito i discorsi che allora faceva nella stanza di analisi.

C’erano già stati nella vita dell’attrice diversi tentativi di suicidio, più di quelli a noi noti e l’uso di psicofarmaci, robe pesanti, oltre ai sonniferi di cui Marilyn faceva uso fin dal 1954 non l’agevolava di certo. Alla fine Corday esplicitò alla Monroe un proprio netto e personale dissenso: non avrebbe avuto intenzione di rimanere a guardare come andava a finire.

Miller era, all’inizio, favorevole al trattamento analitico perché capiva che in molte situazioni della vita Marilyn appariva vittima piuttosto che colpevole, ma poi mutò posizione appalesando le sue perplessità in merito alla onestà di quelle meravigliose canaglie capaci a loro volta di trasformare i loro assistiti in esseri chiusi ed impauriti .

Marilyn rimaneva sempre più spesso sola, fragile, dentro un personaggio che la imprigionava ma che costituiva la sola difesa contro la paura che le veniva da dentro, alla continua ricerca di stabilità, tenace quanto incapace di determinazione costante, seducente nell’effervescenza della gestualità affettuosa con la quale si rivolgeva a coloro con i quali riusciva ad entrare in sintonia.

Ma soprattutto capace di leggersi nella rappresentazione di una negatività come un fantasma.

I guess I am a fantasy, credo proprio di essere solo un’apparenza o, se si preferisce, un fantasma (…) Siamo per la maggior parte soli (…) nella migliore delle ipotesi si potrà forse spingere la nostra comprensione a scovare la solitudine altrui.

In Fragments (Marilyn Monroe, Fragments Poesie, appunti, lettere, Milano, Feltrinelli, 2010) viene riportato un sogno che sembrerebbe quasi una chiave di lettura della scarsa autostima che la Monroe aveva di se stessa, tanto forte quanto la sfiducia che nutriva in coloro che, nel prestarle aiuto, sempre più spesso la deludevano.

Mi aprono, Strasberg con l’assistenza della Hollenberg, e non trovano assolutamente nulla, è uscita solo segatura così sottile, come da una bambola di pezza, e la segatura si sparge su tutto il pavimento ed il tavolo.

Le migliaia di fotografie dell’icona Marilyn ci dicono che di lei è stato riconosciuto solo l’involucro, ma come sottolineò Ezra Goodman, con il quale l’attrice ebbe lunghe frequentazioni, esiste in lei ancora oggi un elemento enigmatico, quasi magico.

Ma rimane anche, quasi una profezia, la poesia che scrisse in occasione del suo trentacinquesimo compleanno, un anno prima della morte.

Trentacinque anni vissuti con un corpo estraneo / Trentacinque anni con i capelli tinti / Trentacinque anni con un fantoccio / Ma io non sono Marilyn / Io sono Norma Jean Baker / Perché la mia anima vi fa orrore / come gli occhi della rana sull’orlo dei fossi?