NUOV* CITTADIN* E LA PROMESSA TRADITA DELL’EGUAGLIANZA
Diciamo la verità, quando si è saputo che lo stragista di Monaco non era un terrorista islamico, la Germania ha tirato un sospiro di sollievo. Sollievo durato pochissimo, giusto il tempo di apprendere la notizia dell’attentato di Ansbach, che questa volta pare invece avere dei legami (quanto forti e reali è ancora da verificare) con la galassia del terrorismo islamista. E, anche se statisticamente il rischio di essere coinvolti in un attentato in Europa è ancora infinitamente inferiore a molte altre cause di mortalità, la tensione è altissima.
La vicenda di Monaco però non merita di essere messa in secondo piano “solo” perché non si trattava di terrorismo islamico, essendo invece molto significativa ed emblematica.
Chi ha sparato nel centro commerciale della capitale bavarese era infatti “solo” un ragazzo di 18 anni tedesco-iraniano, nato e cresciuto in Baviera, con evidenti problemi esistenziali e psichici, che aveva maturato molto odio nei confronti dei suoi coetanei perché vittima di bullismo. C’è chi ha tentato di aggrapparsi a quelle origini iraniane per spiegare il suo gesto. E in effetti forse una relazione con la strage ce l’hanno, ma non nel senso in cui vorrebbero gli xenofobi nostrani. Il profondo disagio in cui viveva Ali David Sonboly è comune a moltissimi “nuovi cittadini”, giovani con origini stranieri, immigrati di seconda generazione o ragazzi con un “Migrationshintergrund”, con un “retroterra di migrazione”, come dicono i tedeschi. Ragazzi spesso nati in Europa o comunque arrivati quando avevano pochi anni, e cresciuti nella tensione fra il mondo di provenienza, che continua ad avere nella loro formazione un peso soprattutto simbolico enorme, e quello in cui di fatto vivono e al quale però non sentono di appartenere integralmente.
Non c’è alcun dubbio – parlano le statiche – che i figli degli immigrati hanno poche chance di emanciparsi dalle condizioni socio-economiche dei genitori e di salire i gradini della scala sociale. La causa di questa scarsa mobilità non è tanto dovuta alle origini straniere in sé quanto al fatto che in generale nelle nostre società l’appartenenza sociale dei genitori determina in gran parte quella dei figli e, sempre statisticamente parlando, la maggior parte degli immigrati appartiene alle fasce più deboli della popolazione. Dunque la dinamica che vivono questi ragazzi è, dal punto di vista esterno e oggettivo, analoga a quella dei loro coetanei dei ceti più bassi, ai quali dunque dovrebbe legarli una solidarietà “di classe”. Ma si dà il caso che le origini straniere assegnino a questa dinamica, da un punto di vista soggettivo e simbolico, un significato diverso e che, miscelando vari elementi, possano innescare dinamiche molto complicate da comprendere e da gestire.
Ho di recente conosciuto una ragazza che a mio parere sintetizza perfettamente il momento sociale e storico che stiamo vivendo. Nasrin – la chiamerò così – è nata in Siria, da una famiglia curda che si è trasferita in Germania quando lei aveva 9 anni. Oggi lei ne ha 29, la sua lingua “madre” è il curdo, che però sa parlare ma non scrivere, perché ha studiato nelle scuole tedesche per cui la sua lingua principale è il tedesco. È andata sempre molto bene a scuola, tanto che dopo qualche anno di Realschule (una scuola che non rilascia l’Abitur, il titolo di studio necessario per iscriversi all’università), su suggerimento degli insegnanti, è passata al Ginnasio e oggi frequenta l’università. Il ritardo accumulato nei primi anni (appena arrivata ha dovuto ricominciare dalla prima elementare) se lo porta appresso come un fardello e un complesso di inferiorità di cui vuole presto liberarsi. Quando tornava in Siria (da qualche tempo non può più farlo a causa della guerra), la consideravano una tedesca, in Germania continuano a chiederle “da dove vieni?” nonostante non abbia il minimo accento straniero. Questa mancanza di radici, questa impossibilità di trovare un’identità pesa potentemente nelle sue relazioni sociali. Lei per certi versi continua a sentirsi un’ospite in Germania, per altri, nonostante sia curda, di religione yazida, mi ha confidato che ha difficoltà a indossare minigonne per paura che i suoi “connazionali” musulmani che incontra per strada in Germania la giudichino una poco di buono. È insomma un concentrato di contraddizioni.
E finché l’appartenenza alla comunità sociale e politica europea non sarà capace di generare un sentimento di identità in questi nuovi cittadini – cosa possibile solo se la promessa di eguaglianza venga realmente mantenuta e non sistematicamente tradita – queste contraddizioni sono destinate a esplodere.
26 luglio 2016